Per poter dimostrare una qualsiasi ipotesi psicologica, sarebbe naturalmente opportuno realizzare un qualche tipo di ricerca a supporto. E spesso nemmeno con questa ci si riesce, perchè in Psicologia le variabili nascoste o non controllabili sono tali da rendere arduo il compito del ricercatore. In questo breve scritto però, basato unicamente su osservazioni personali, vorrei proporre una semplice riflessione: autocommiserazione e autoindulgenza sono in realtà due aspetti di un medesimo atteggiamento personale, dovuto ad un Io non particolarmente volitivo?
Diciamo la verità, a nessuno piacciono le persone “che si piangono addosso“, in modo particolare quando (dal nostro punto di vista) non avrebbero alcuna ragione per farlo. Ma se ci pensiamo bene, in un mondo sempre più a corto di empatia, l’autocommiserazione rischia di infastidirci persino quando le persone stanno effettivamente affrontando qualche momento esistenziale impegnativo.
Spesso, in effetti, non abbiamo tutti i torti nel rifiutarci di rispondere, alla persona che si sta autocommiserando, con un comportamento che giustifichi questa loro tendenza. E’ opinione piuttosto diffusa (e senz’altro in parte corretta) che mostrarsi assecondanti nei confronti di queste persone tenderà a rinforzarne l’errato atteggiamento.
Lo facciamo mossi più che altro dalla convinzione che noi siamo in grado di non cadere mai vittime di questo tipo di situazione. Per renderci conto di quanto elevato sia il livello di coerenza con noi stessi, non dovremmo però limitarci a verificare la presenza o l’assenza in noi della medesima tendenza all’autocommiserazione. Dovremmo verificare anche quanto sappiamo evitare di essere autoindulgenti. Sebbene l’autoindulgenza possa derivare da caratteristiche di personalità o da situazioni psicologiche momentanee di vario tipo, essa potrebbe anche essere una diretta conseguenza di una velata tendenza all’autocommiserazione.
Ecco alcuni esempi di come autocommiserazione e autoindulgenza possono presentarsi come aspetti separati di una medesima inclinazione, quando cerchiamo di giustificare qualcosa che sarebbe più opportuno definire mancanza di volontà:
- “E’ inevitabile che io non riesca a portare a termine i miei compiti. Le persone non comprendono i miei problemi“;
- “Ma perchè non capiscono che non posso riuscirci? …In fine dei conti sono stato così male nell’ultimo mese”;
- “Che cosa si aspettano da me, se nessuno mi aiuta? E’ chiaro che non ci posso riuscire”.
Va da sé che esistono condizioni psicologiche in cui l’autoindulgenza e l’autocommiserazione non possono essere risolvibili autonomamente, in quanto “sintomi” della presenza di una situazione clinicamente rilevante. Ma se sono semplicemente una questione di mancanza di Volontà, abbiamo molto potere nelle nostre mani per una crescita ed un cambiamento concretamente finalizzati al benessere psicologico.
Tu stesso, come chiunque altro nell’universo, meriti il tuo amore e il tuo affetto
(Buddha)
Esiste un atteggiamento corretto da assumere, sia nei confronti degli altri che nei confronti di noi stessi, quando avvertiamo di essere in difficoltà nella realizzazione di determinate aspettative? Probabilmente si, e si chiama compassione.
Compassione e commiserazione sono due aspetti emozionali completamente diversi. Nel secondo caso, tendiamo a prendere le distanze dal sentimento di sofferenza dell’altra persona, giungendo in alcuni casi persino alla denigrazione. La compassione autentica è invece quel sentimento genuino, tanto caro a tradizioni orientali come quella buddhista, in cui avviene l’esatto opposto: il vissuto dell’altra persona viene avvicinato a sé al fine di poterlo in qualche modo condividere (con-patire).
Anche verso noi stessi possiamo provare autentica compassione, che è il migliore antidoto ai pericolosi sentimenti di autocommiserazione e autoindulgenza. Provare compassione per le proprie difficoltà non è sbagliato. Ci sono momenti della nostra vita in cui ci troviamo in grande difficoltà, e davvero non sappiamo se e come ne usciremo. La prima cosa da fare per ripristinare un sano benessere psicologico è proprio quella di accogliere il nostro dolore, senza negarlo ma senza esagerarlo, senza volerlo reprimere in noi stessi ma senza volerlo “buttare addosso” agli altri.
Anche i momenti di dolore della nostra vita hanno un senso profondo. Sono parte del cammino evolutivo che possiamo percorrere per riuscire a diventare ciò che nel nostro cuore sappiamo di poter Essere. Sono “ostacoli formativi” verso la piena manifestazione di quel potenziale racchiuso in noi che possiamo poeticamente definire “forza dell’anima”. La prima cosa da fare è dunque decidere di affrontarli con saggezza e dignità.
Leggendo le biografie di persone che hanno lasciato preziose testimonianze di vita, sembrerebbe infatti che per raggiungere una solida felicità nella vita, soprattutto dall’età adulta in poi, sia di grande aiuto saper esprimere in pienezza quello stato psicologico-spirituale a cui il nostro cuore costantemente invita, lungo la via della volontà dell’intelligenza e dell’amore.
Autocommiserazione e autoindulgenza devono dunque essere travolte dalla forza della nostra volontà e avvolte dal tenero abbraccio del nostro stesso cuore. Non dobbiamo avere paura di diventare ciò che possiamo (e dobbiamo) diventare. Se davvero esiste una “forza” in noi che costantemente ci richiama a ciò a cui “siamo destinati”, non dovremmo avere alcun timore nel fare ricorso ad aspetti come il Senso di Responsabilità o il Senso del Dovere al fine di superare l’inerzia autogiustificante e la falsa autocompassione.
Senso di Responsabilità e del Dovere non sono retaggi di un’era passata e nemici del benessere, come si tende a credere oggi. Quando saggiamente integrati nella nostra personalità, sono la più luminosa dimostrazione di una Coscienza che procede senza indugio verso la più piena autorealizzazione ed una meravigliosa integrazione con un ambiente interpersonale sempre più vasto.