In uno dei tanti preziosi scritti di Nancy McWilliams (1), si parla della valutazione, con il paziente, di ciò che la terapia psicologica può, o non può, modificare. Quando una persona sceglie autonomamente di avvicinarsi ad un percorso psicologico generalmente nutre fiducia nella possibilità che la propria vita possa cambiare, e che serenità e felicità possano fare presto ritorno. L’aspettativa verso la figura dello psicologo è infatti quella che il professionista possa operare come “agente di cambiamento”.
Vi sono però situazioni e condizioni che non possono essere modificabili, o che quantomeno appaiono come tali in relazione a determinate caratteristiche temperamentali di ciascun individuo.
“La vita” come ricorda Nancy McWilliams “ha la capacità di gettare di continuo ostacoli inamovibili lungo la strada delle persone”. Sono davvero numerose le condizioni di disabilità o vulnerabilità a cui la vita ci può esporre, nei confronti delle quali la strada del cambiamento non sembra essere percorribile.
Basti pensare, solo per fare qualche esempio, alle condizioni di inabilità fisica, alle patologie croniche, alle conseguenze irreversibili di traumi o compromissioni fisiche, alla perdita di una persona cara o a qualsiasi condizione di importante e definitivo impedimento o perdita. Non sono pochi gli aspetti della vita che si possono presentare come individualmente immodificabili, e che vengono percepiti come “dura realtà”.
L’obiettivo del cambiamento, in un percorso psicologico, deve naturalmente essere preso sempre in considerazione, ma vi saranno sempre fattori sui quali non sarà possibile intervenire. Ma anche quando il cambiamento non è attuabile, vi è sempre un’altra strada percorribile, di altrettanta importanza e dignità: quella dell’accettazione e dell’adattamento.
Una sincera accettazione dell’immutabilità di determinate condizioni di vita consente di riorientare il proprio sguardo verso lo sviluppo di strategie finalizzate a compensare le difficoltà e ad accettare con maggior serenità l’adattamento alle realtà immodificabili.
Molto significative a questo proposito le parole della McWilliams: “Il processo di adattamento implica il superamento del diniego, la trasformazione di idee magiche nell’elaborazione di un processo di lutto e di strategie di coping più efficaci e la sostituzione delle credenze patogene con spiegazioni realistiche. Tutto ciò apre le porte a relazioni migliori e più autentiche, basate sull’accettazione dei propri attributi immutabili. Naturalmente, questo è di per sé un cambiamento profondo”.
Dunque, il presentarsi di un problema irrisolvibile nella propria vita attiverebbe prima di tutto il diniego. Tendiamo, in qualche modo, a non volerci credere davvero che sia successo. Rimaniamo aggrappati al “pensiero magico” che qualcosa, in qualche modo, accadrà, e che ci debba necessariamente essere una soluzione. Ma tutto questo, quando il problema è davvero irrisolvibile, non fa altro che allontanare o ritardare l’inizio di un serio lavoro di acquisizione di strategie idonee ad affrontare e gestire la situazione.
L’esempio riportato nel testo è quello di una persona con elevata sensibilità alla depressione, a causa della quale difficilmente potrà aspettarsi una totale libertà dalla patologia nel corso del tempo. Per questa ragione, un intervento psicologico avrebbe in questo caso la funzione di aiutare la persona ad accettarsi anziché odiarsi. Un eventuale abuso di sostanze potrebbe lasciare il posto ad una terapia farmacologica (se necessaria) o psicologica. Il diniego verso la situazione potrebbe essere rielaborato, lasciando il posto ad una sana consapevolezza e al desiderio di ammettere a sé e alle persone care la vera realtà dei fatti.
Le parole che ho però trovato ancora più interessanti su questo complesso ambito della psicologia, sono quelle di Carl G.Jung, quando affermava che i grandi problemi della vita non si possono risolvere, ma si possono superare. Il dilemma tra cambiamento e accettazione trova dunque una naturale evoluzione nella consapevolezza che ciò che non può essere risolto, può comunque essere superato.
Ma che cosa significa “superare” un problema irrisolvibile? La perdita di una persona cara è, ad esempio, un problema irrisolvibile. Nessuno potrà restituirla all’affetto dei propri cari, una volta superati i cancelli della morte. Superare il problema in questo caso significa trovare in noi stessi quelle risorse che ci permetteranno di affrontare questa nuova condizione esistenziale con consapevolezza e con la giusta serenità.
Essere colpiti da una disabilità cronica è un altro esempio di problematicità insuperabile. Ma questa condizione esistenziale può attivare in noi la capacità di valorizzare aspetti della vita a cui in precedenza non era mai stata data importanza. O può addirittura avvicinare la persona a tematiche esistenziali di tipo filosofico o spirituale. Paradossalmente, la vita può apparire addirittura più ricca di significato quando il dolore ci colpisce più duramente, perchè riusciamo ad essere più consapevoli, più grati, più aperti alla bellezza e alla conoscenza.
E’ un concetto meravigliosamente espresso, fra i tanti esempi che si potrebbero fare, nella poesia di Khalil Gibran dedicata al dolore. Così infatti si esprimono i suoi primi versi:
Il dolore è lo spezzarsi del guscio
che racchiude la vostra conoscenza.
Come il nocciolo del frutto deve spezzarsi
affinché il suo cuore possa esporsi al sole,
così voi dovete conoscere il dolore...
Quando il cambiamento non è possibile, e la sofferenza si fa stabilmente strada in noi, rimane però sempre viva la possibilità di operare una serena accettazione. Rimane la possibilità di percorrere la via del superamento del problema attraverso la scoperta di un rinnovato amore verso la vita e verso noi stessi, e la scoperta di forme di bellezza e consapevolezza che in precedenza sarebbero apparse del tutto inarrivabili.
NOTE BIBLIOGRAFICHE
(1) – Nancy McWilliams – Il caso clinico. Dal colloquio alla diagnosi – Raffaello Cortina Editore