Destino e Psicologia – la forza del Daimon

Il rapporto tra Destino e Psicologia moderna potrebbe apparire insensato. L'atteggiamento di fronte a qualcosa definibile come "Fato", dall'antichità fino ai giorni nostri, evoca però ancora nell'uomo una varietà di pensieri ed emozioni. Proveremo a dimostrare come, alla fine, il potere più grande concesso all'uomo non è quello di modificare il destino, ma quello di modificare il suo atteggiamento di fronte a ciò che viene avvertito come tale.
Destino e Psicologia – la forza del Daimon
Destino e Psicologia – la forza del Daimon
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Il tema del rapporto tra Destino e Psicologia non è nuovo ai lettori di questo sito. Si tratta di una tematica che seduce le menti sia dei sostenitori dell’assurdità della sua stessa esistenza, sia di coloro che guardano invece con timore reverenziale al proprio futuro, preoccupati dall’ineluttabilità di ciò che potrebbe avere in serbo. Il tema del Destino può tranquillamente rimanere estraneo alla nostra consapevolezza o ai nostri interessi personali. Forse però non per sempre; forse non di fronte ai più fatali eventi della vita.

Quando il successo o la “fortuna” arricchiscono generosamente la nostra realtà, tendiamo a credere che tutto ciò sia dovuto ai nostri meriti, alle nostre qualità o al frutto del nostro impegno. E questo, indipendentemente dalla effettiva fondatezza delle nostre personali valutazioni. Ci sono però momenti, nelle vite di molte persone, di fronte ai quali non è possibile non chiedersi “perché?”.

Quando gli eventi della nostra esistenza convergono verso un “destino” sfavorevole o addirittura drammatico, ci rendiamo talvolta conto che “qualcosasembra aver guidato i nostri passi esattamente in quella direzione. Attraverso una serie di “coincidenze” o di “eventi fortuiti”, siamo stati condotti al cospetto del nostro Fato. Serve a poco, in queste circostanze, indugiare su pensieri come: “se solo avessi…”. Il sospetto dell’inevitabilità della situazione echeggia con insistenza nella nostra mente, a dispetto della nostra più eroica resistenza razionale.

Ma d’altra parte, tale sospetto è noto all’uomo fin da tempi antichi. La breve ma molto significativa leggenda dell’angelo della morte di Samarcanda, la cui origine si perde nella notte dei tempi, ne è una perfetta dimostrazione. Eccola in una delle sue tante versioni:

Nel giardino del re, la Morte appare a un servo. “Domani”, gli dice “ti vengo a prendere…”
Allora il servo corre dal re e gli chiede il cavallo più veloce, per fuggire lontano, a Samarcanda.
Arriva a Samarcanda, l’indomani, e la Morte è lì che lo aspetta.
“Non è giusto”, grida il servo “non è leale”. “Perché?” risponde la Morte. “Sei fuggito senza farmi finire il discorso.
Io ero in giardino per dire: domani ti vengo a prendere a Samarcanda”.

Proveremo però, in questo scritto, a formulare qualche riflessione sul senso più autentico del rapporto tra Destino e Psicologia. Proveremo ad attingere a quelle fonti psicologiche e filosofiche che, cercando di penetrare questo mistero, hanno saputo offrire gli spunti di pensiero più affascinanti. Cercheremo di avvicinarci a questo fenomeno dal punto di vista dell’uomo che desidera guardare alla sua vita con piena consapevolezza del Sé e capacità di autodeterminazione.

Ecco, il fato guida chi lo segue di buon grado,
e trascina a viva forza chi gli è riluttante.

Seneca

Destino e Psicologia Junghiana

Nell’analisi del rapporto tra Destino e Psicologia, ci focalizzeremo soprattutto sul concetto di Daimon. James Hillman, prendendo spunto dalle ricerche del suo maestro Carl G. Jung, ha sviluppato un pensiero piuttosto curioso ed estremamente avvincente su questo aspetto. Nel suo testo “il codice dell’anima“, introduce il suo ragionamento citando il passo della Repubblica di Platone che parla del Daimon:

“Quando tutte le anime si erano scelte la vita, secondo che era loro toccato, si presentavano a Lachesi.
A ciascuna ella dava come compagno il Genio [daimon] che quella si era assunto, perché le facesse da guardiano durante la vita e adempisse il destino da lei scelto.
E il daimon guidava l’anima anzitutto da Cloto: sotto la sua mano e il volgere del suo fuso, il destino prescelto è ratificato.
Dopo il contatto con Cloto, il daimon conduceva l’anima alla filatura di Atropo per rendere irreversibile la trama del suo destino.
Di lì, senza voltarsi, l’anima passava ai piedi del trono di Necessità”…
(Platone, Repubblica, X, 620d-e)

In ultima analisi, noi contiamo qualcosa solo in virtù dell’esperienza che incarniamo, e se non la realizziamo, la vita è sprecata.

C.G.Jung

Prima di accostarci alla forza e alla bellezza del messaggio simbolico contenuto in questo mito, vediamo come il noto psicoanalista e scrittore Claudio Widmann analizza l’evoluzione del concetto di Destino nel corso della storia dell’uomo. In un breve scritto dal titolo “Analisi e destino” espone il suo punto di vista su come ciò che è sempre stato considerato come una “volontà esterna” o un “elemento incontrollabile” della propria vita, può assumere un significato diverso se collocato all’interno di una cornice psicologica (come la Psicoanalisi) che considera il sé come una totalità composta di elementi consci e inconsci. Widmann riassume questa evoluzione nel pensiero umano in quattro tappe fondamentali, che dimostrerebbero come il senso di Destino sia stato progressivamente “internalizzato”: da una forza del tutto estranea a se stessi, ad un elemento appartenente al proprio inconscio.

  1. All’inizio il Destino è concepito come una forza esterna persino agli dei (la Moira);
  2. Diviene poi un’imposizione su cui gli dei hanno potere di discrezione (il consesso di Marduk);
  3. Evolve poi nella forma di una “volontà divina” a cui l’uomo però partecipa con una porzione non trascurabile di responsabilità (la provvidenza);
  4. Oggi, infine, è possibile analizzare il concetto di Destino alla luce di raffinate teorie psicologiche, che consentono di rinunciare ad ogni elemento “esterno” all’uomo e di considerarlo semplicemente parte dell’attività umana. In particolare, in accordo con la Psicologia Junghiana, è possibile proporre una teoria che considera il rapporto con i Destino come parte del rapporto tra il nostro inconscio e ciò che da esso affiora alla coscienza sotto forma di “eventi concreti”.

Destino e Psicologia: la chiamata del Daimon

Basterebbero i pochi pensieri contenuti nel breve brano di Platone appena riportato per avere materiale psicologico su cui riflettere per lungo periodo. Il rapporto tra destino e psicologia si gioca per buona parte sull’interpretazione simbolica di questo mito, che assegna agli esseri viventi un “destino particolare“, un “compito da portare a termine“. L’aspetto più interessante non riguarda però il fatto in sé, che è del tutto simbolico ed opinabile. Riguarda piuttosto la sorprendente considerazione del destino come scelta consapevole di ogni anima.

Al di là quindi dell’aspetto mitologico della questione, l’idea contenuto nel messaggio di Platone è la totale assunzione di responsabilità personale nei confronti di ciò che ci accade nella vita, e la conseguente rinuncia ad attribuire “colpe” di vario tipo all’ambiente, alla sfortuna o alla volontà altrui. E’ in sostanza un’elegante esposizione di un aforisma a me molto caro e già citato in altri articoli: “diventare adulti comporta la perdita del privilegio di poter incolpare gli altri per ciò che ci accade“.

Relativamente al rapporto tra Destino e Psicologia, James Hillman ha proposto una riflessione sull’esistenza di una responsabilità personale anche nei confronti di un “Destino” da onorare, di un “Compito” da assolvere nella vita. Essa scaturirebbe dall’esistenza di un “Daimon”, di un progetto individuale da portare a termine, che, dal primo all’ultimo giorno della nostra vita, spingerà tutto il nostro essere verso questo adempimento.

A tutto questo, Hillman ha dato il nome di “Teoria della Ghianda“, con riferimento al fatto che la ghianda, nella sua qualità di seme, contiene una quercia in tutto il suo potenziale. Il nostro compito, nella vita, è pertanto quello di scoprire il “mistero” di questo potenziale e di accoglierlo in tutta la sua pienezza e bellezza, perchè è unico per ciascuno di noi. L’autore afferma infatti che “io e voi e chiunque altro siamo venuti al mondo con un’immagine che ci definisce… ovvero ciascuno di noi incarna l’idea di sé stesso. E questa forma, quest’idea, quest’immagine non tollerano eccessive divagazioni“.

Questo punto di vista, in Psicologia, è abbastanza unico, dal momento che le più importanti teorie della personalità tendono a convergere verso una visione dell’uomo concepito come “un impercettibile palleggio tra forze ereditarie e forze sociali“, citando sempre il libro di Hillman. L’uomo, dal suo punto di vista, non sarebbe un prodotto della statistica, e men che meno la “vittima” di un codice genetico. E’ pertanto necessario “smascherare la mentalità della vittima, da cui nessuno di noi può liberarsi, finché non riusciremo a vedere in trasparenza i paradigmi teorici che a quella mentalità danno origine e ad accantonarli“. Il gioco deterministico tra ambiente e genetica deve essere superato, al fine di potersi rimettere sulle tracce del proprio Daimon, del proprio “compagno segreto” e del suo modo di operare nella nostra vita.

Daimon e Libero Arbitrio

Eccoci alla domanda più importante: Nell’ambito del rapporto tra Destino e Psicologia, come si colloca l’esistenza di un “Daimon” personale rispetto a quel libero arbitrio che l’uomo moderno reclama in misura sempre più ampia? Dal momento che la tematica fondamentale di questo sito è la Realizzazione Personale e Transpersonale, in bellezza, saggezza e pienezza di coscienza, ci soffermeremo ora a riflettere su questa importante questione.

Credo non vi siano parole più idonee e luminose, per introdurre questo aspetto, che quelle di Dante in questo passo della Divina Commedia:

a maggior forza e a miglior natura
liberi soggiacete […]
(Pg. XVI, 79-80).

Dante parla della sottomissione alla volontà di Dio. Naturalmente, non entreremo negli aspetti religiosi della questione. Limitandoci agli aspetti psicologici, rileviamo che anche in noi stessi esiste una Volontà, che possiamo qui indicare come sinonimo di Daimon. E’ la Volontà di esistere in bellezza, pienezza e consapevolezza, declinata nella realizzazione del nostro Scopo più personale e autentico. La magia di queste parole è rivelata dall’accostamento dei termini “libertà” e “soggiacere”. Un ossimoro che il genio di Dante non poteva non utilizzare intenzionalmente. Ed è proprio questo il nucleo fondamentale di questo scritto. Ciò che ci può rendere felici e realizzati, nella nostra pienezza bio-psico-spirituale, non può in alcun modo essere un libero arbitrio estraneo a ciò che, nella nostra essenza, siamo. Il paradosso insito in ciò che Hillman definisce Daimon consiste proprio nel carattere di assoluta libertà della scelta di dedicare tutte le proprie forze all’espressione del “disegno” racchiuso nella propria ghianda.

Cambiare il destino, o cambiare sé stessi?

Marsilio Ficino, filosofo umanista rinascimentale, aveva le idee piuttosto chiare su questo aspetto. Con queste parole riassume efficacemente il suo punto di vista: “La forza del Destino non penetra la mente a meno che la mente, per sua stessa disposizione, non si sia prima compenetrata nel corpo, che è soggetto al destino… Ogni anima dovrebbe isolarsi dal fardello del corpo e concentrarsi sulla mente, perché allora il Destino scaricherà la propria forza sul corpo, senza toccare l’anima“.

Non è possibile cambiare il Destino, sembra sottintendere. La sua forza agisce però solamente “sul corpo”, e la mente può sottrarsi alla sua azione, praticando il “distacco”. Nell’ambito del rapporto tra Destino e Psicologia, potremmo intendere questa affermazione come un invito alla disidentificazione da tutto ciò con cui il nostro Io si identifica. Se siamo in grado di percepire in noi la vera Essenza di noi stessi, al di là delle emozioni, dei pensieri e degli eventi della vita quotidiana, allora il “Destino” ha poco potere su di noi. E questa può davvero essere la base di uno stato di autentica Gioia: stabile e relativamente indipendente dal vissuto “esteriore”.

Al contrario, se fondiamo la nostra felicità esclusivamente sulla ricerca di condizioni esteriori che ci possano assicurare benessere ed emozioni piacevoli, siamo esposti al rischio di cedere alle “Forze del Destino” la possibilità di destabilizzare il nostro mondo interiore. E’ del tutto evidente, infatti, che una protezione completa da qualsiasi possibile avversità è del tutto impensabile.

Come sempre, raccomandiamo di non intendere la disidentificazione come “fuga dalla realtà”. La disidentificazione non è il rifiuto dell’esperienza in sé. Non è nemmeno il rifiuto delle emozioni che la accompagnano. E’ un processo di grande intelligenza e maturità psicologico-spirituale, che consente agli individui dotati di sufficiente equilibrio e saggezza di poter accogliere con grande apertura e serenità di cuore anche le avversità più difficili. E’ dunque un percorso per le poche persone capaci di accettare i “come” della vita perchè hanno un “perchè”; E’ una condizione che può essere correttamente compresa solamente in presenza di un chiaro fine ultimo dell’esistenza, che funge da elemento guida anche nei momenti più impegnativi.

Sembra che anche il pensiero dei filosofi platonici converga su questa posizione rispetto al destino. Se si intende affrancare sé stessi dal destino che è impresso dal cielo sulla forma fisica, allora è necessario allentare l’identificazione della mente con gli aspetti materiali. Moira governa infatti il mondo dei sensi, ma nulla può su ciò che Platone definiva “il mondo intelligibile dello spirito“. L’essenza umana è infatti “scintilla divina e frutto di questo mondo“.

In sintesi, nell’ambito del rapporto tra Psicologia e Destino, possiamo proteggerci dall’azione di quest’ultimo pervenendo ad una maturità interiore pienamente autocosciente e centrata nella pienezza del Sé. Il focus della nostra coscienza deve essere elevato dalla dimensione esclusivamente sensoriale, passionale e fisica, a quella della pienezza del sé, ed auspicabilmente a quella del Sé Superiore o Transpersonale.

Questo stadio rappresenta uno dei traguardi più importanti della nostra evoluzione psico-spirituale. Il suo raggiungimento dimostra una realizzata maturità in piena autocoscienza e pienezza del Sé. A questo livello, parlare di “destino” non ha più il medesimo significato. Forse addirittura non ne ha più alcuno. L’esperienza della vita, sia nelle sue forme più gioiose che in quelle più drammatiche, si colloca allora in un’ottica di piena autorealizzazione e perfezionamento interiore, e tutto è visto in funzione di questo.

Concludiamo con questa affermazione dello psicoanalista Rollo May (ripresa dal già citato articolo di Claudio Widmann), che alla fine degli anni ’60 scriveva: “quando la vita è ridotta alla semplice sopravvivenza e nient’altro ha significato, rimane ancora una libertà fondamentale, la libertà di scegliere il proprio atteggiamento verso il destino. Tale scelta probabilmente non cambierà il destino, ma cambierà sensibilmente la persona“. E questa è senza dubbio la sintesi più chiara di quanto abbiamo cercato di esprimere in questo articolo.


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