Il mio personale interesse per l’Esperienza Immaginativa è strettamente legato ad una visione della psicologia fortemente caratterizzata da una concezione “spirituale” dell’esperienza umana, in tutte le sue possibili declinazioni. Con questo termine intendo sostanzialmente riferirmi a quella dimensione che per molti individui è una necessità fondamentale: il bisogno di ricercare un senso e un fine all’esistenza stessa.
Non si tratta quindi di un concetto che si limita all’esperienza religiosa, la quale può rimanere del tutto estranea a questo ambito oppure sovrapporvisi con ampiezza variabile a seconda dell’inclinazione soggettiva di ciascun individuo.
La “psicologia spirituale” che da sempre motiva la mia ricerca personale e costituisce un irresistibile anelito alla crescita interiore ha come fine l’innalzamento della consapevolezza di sé stessi e del proprio ruolo nell’economia della vita.
Ha a che fare con la capacità di interpretare più acutamente e profondamente la realtà, apprendendo a coglierne con intuito e saggezza quegli elementi di bellezza che rischiano di rimanere estranei alla nostra coscienza e di ostacolare quell’arricchimento interiore che, nel mio modo di vedere, costituisce il vero “salto quantico” del benessere psicologico.
Ha a che fare con l’opportunità di apprendere le modalità per mezzo delle quali riuscire a rendere “sacra” la propria esistenza, sviluppando il proprio sentire, dando voce al proprio cuore e realizzando mete sempre più consapevolmente elevate.
Ma ha a che fare anche e soprattutto con l’accrescimento della capacità di dare un senso alla sofferenza, in tutte le forme in cui essa può manifestarsi nella nostra vita. Niente può annientare il nostro cuore più dei momenti di grande dolore. Ma nient’altro ha anche il potere di risvegliarlo a nuovi livelli di consapevolezza.
Una psicologia concretamente spirituale, a mio avviso, non deve limitarsi ad accogliere e alleviare il dolore, per quanto nobile e sempre auspicabile possa essere questo proposito. Deve anche essere in grado di dare risposte agli interrogativi più profondi che tormentano l’animo dell’uomo e di indicare una via per dare un senso alla sofferenza.
Come affermava Carl G.Jung, i grandi problemi della vita non potranno mai essere risolti, ma soltanto superati (Jung, 2001). Il compito della psicologia non è naturalmente quello di risolvere i grandi problemi della vita. Esistono problemi di elevato impatto esistenziale che, per loro natura, non possono essere risolti. Si pensi ad esempio ai lutti, alle perdite o a tutti quei disagi derivanti da un passato che non può più essere modificato.
«Io chiudo i miei occhi per poter vedere»
Paul Gauguin
La psicologia deve però offrire risposte e chiavi di interpretazione della realtà utili a poterli superare. Deve aiutarci ad essere in grado di intuire il loro senso più profondo in chiave evolutivo-trasformativa, al fine di poterseli lasciare alle spalle.
Deve metterci in condizione di entrare in intimità con noi stessi fino al punto in cui sviluppiamo l’abilità di scoprire ciò che caratterizza il nostro essere più autentico, al fine di essere in grado di osservare i nostri problemi allo stesso modo in cui si osserva, in piena consapevolezza ma con equilibrata “distanza”, la presenza di “un temporale nella valle dalla cima di un monte”. È una frase di Roberto Assagioli, alle cui intuizioni devo molto nel mio percorso di avvicinamento al mondo dell’Esperienza Immaginativa.
Ed è quindi con piacere che riporto di seguito queste sue parole, per chiarire ulteriormente ciò a cui si avvicina la mia personale definizione del concetto di spiritualità in psicologia:
“La spiritualità consiste anzitutto nel considerare i problemi della vita da un punto di vista elevato, comprensivo, sintetico; nel saggiare tutto in base ai veri valori, nel cercare di arrivare all’essenza di ogni fatto, senza lasciarsi arrestare dalle apparenze esterne, senza lasciarsi illudere dalle opinioni tradizionali, dagli influssi collettivi, dalle tendenze, dalle emozioni, dai preconcetti personali. […] la luce spirituale proiettata sui più complessi problemi individuali e collettivi rivela delle soluzioni e mostra delle vie che possono far evitare molti pericoli ed errori, risparmiare molte sofferenze e quindi arrecare benefici incalcolabili”. (Assagioli, 1988).
Spiritualità e necessità di prudenza
Anche il concetto di “transpersonalità” ha sempre esercitato un notevole fascino su di me. Molte delle mie scelte formative sono state orientate proprio dalla possibilità di approfondire e valorizzare questo ambito. Vorrei però approfittare per chiarire un aspetto che ritengo fondamentale della questione.
Tutto ciò che è definibile come “trascendenza”, “transpersonalità”, “spiritualità”, ecc., deve essere studiato e compreso attraverso il medesimo atteggiamento scientifico con cui si affrontano tutte le altre tematiche appartenenti al mondo della psicologia.
Oggi siamo purtroppo circondati da un’infinità di offerte autoformative o addirittura pseudo-professionalizzanti che immettono nel “mercato” del benessere e della crescita personale un’impressionante offerta di metodi, tecniche o insegnamenti dalla natura più disparata.
Per rendersene conto è sufficiente osservare ad esempio l’enorme frequenza con cui il pensiero vastissimo, elegante e per certi versi misterioso di un gigante della psicologia come C.G.Jung viene citato a sproposito per avallare teorizzazioni di ogni tipo.
«L’immaginazione non è il talento di alcuni uomini ma il benessere di ogni uomo»
Ralph W. Emerson
Uno dei pericoli in un certo senso più “interessanti” (almeno come fenomeno di studio) appartenenti a quest’area è quello del “bypass spirituale”, così definito dallo psicologo statunitense John Welwood, recentemente scomparso. In un testo dedicato alla ricerca di connessioni tra la moderna psicologia occidentale e le pratiche Buddhiste di realizzazione spirituale, Welwood evidenzia i rischi connessi al ricorso a pratiche spirituali quando esse si configurano più che altro come una difesa psicologica verso il bisogno di affrontare problematiche personali irrisolte.
In altre parole, ciò che andrebbe evitato è che la spiritualità possa diventare una fuga dal bisogno di strutturare correttamente la propria personalità o di considerare e rielaborare i propri bisogni e sentimenti fondamentali (Welwood, 2002). James Hillman è giunto addirittura ad affermare, forse esagerando un po’, che la “trascendenza” è un modo per ignorare la psicopatologia, mettendosi al di sopra di essa e rifiutandola.
Dal suo punto di vista, la psicologia umanistica, per quanto “degna di lode per la sua opposizione alle denigrazioni di gran parte delle psicologie sperimentali, analitiche e behavioristiche, […] si è spinta a un altro eccesso. Nel tentativo di restituire all’uomo la sua dignità, essa lo idealizza, spazzando sotto il tappeto, per così dire, le sue patologie” (Hillman, 1983).
La trascendenza può sicuramente diventare una via di fuga, o un modo per volgere le spalle alla ricchezza dell’anima come affermava Hillman, ma solo quando non ha alla base l’integrazione della personalità o quando non sia in corso un serio “processo di individuazione”, per come lo definiva Jung.
Un albero non può estendere le sue fronde se non possiede radici ben piantate nel suolo. Verrebbe spazzato via dalla prima folata di vento. È dunque importante che gli elementi di trascendenza possano comparire solo in una fase avanzata dell’analisi, quando vi è una più concreta familiarità con i contenuti dell’inconscio e la propria personalità risulta adeguatamente strutturata o ri-strutturata.
Altrimenti è preferibile non compaiano affatto, in quanto il rischio che possa trattarsi di fenomeni illusori e puramente compensativi rispetto a qualche inaccettabile vissuto di sofferenza è piuttosto elevato. Accogliere nel proprio vissuto interiore qualche elemento di trascendenza ha un valore inestimabile solo dopo essere riusciti ad astrarre dalle esperienze dolorose della vita quelle preziose lezioni che ci aiutano a riformulare in senso teleologico l’esperienza dell’esistenza stessa.
Un aspetto che ho molto apprezzato nel metodo dell’Esperienza immaginativa è proprio il fatto che la fase della “trascendenza” è l’ultima tra quelle di norma previste in un percorso completo di analisi. Essa è dunque lasciata come eventualità; come un’opportunità di completamento e di realizzazione finale, al termine di un processo consolidato di rinnovamento interiore.
NOTE BIBLIOGRAFICHE
Assagioli, R., (1988), Lo sviluppo transpersonale, Astrolabio Ubaldini.