Il Codice dell’Anima – James Hillman

Il Codice dell'Anima di James Hillman. Un'affascinante esposizione sul concetto di Anima nell'evoluzione della Psicologia Analitica e sull'esistenza di un Daimon personale.
Il Codice dell’Anima – James Hillman
Il Codice dell’Anima – James Hillman
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Parlare di Anima e Psicologia, oggi, è diventato piuttosto frequente. Purtroppo, come appare forse chiaro ai lettori di questo sito, personalmente ho grandi riserve nei confronti di una serie di “movimenti moderni” che affrontano la questione con superficialità, incompetenza ed un uso infantile dell’immaginazione. James Hillman, non fa certamente parte di questo ambito. Fin dagli anni Settanta, è stato uno dei pionieri della necessità di reintrodurre il concetto fondamentale di “Anima” in Psicologia. Il termine “Anima”, assieme a tutto ciò che poteva in qualche modo richiamare elementi di tipo “religioso”, era ovviamente stato eliminato dal nuovo panorama psicologico scientifico, in nome dell’adesione a quell’ottica Positivista a cui la Psicologia moderna, nata nella seconda metà dell’Ottocento, si è sempre ispirata.

Con il suo bestseller “Il Codice dell’Anima”, Hillman offre al lettore le sue riflessioni sul concetto di Anima, a partire dalla Psicologia Analitica di Carl G.Jung, a cui dedicheremo un apposito approfondimento nella specifica sezione sullo studio del rapporto tra Anima e Psicologia. Egli ne arricchisce però enormemente la portata, introducendo specifici elementi di Filosofia, con particolare riferimento a Platone e al suo “erede” Plotino.

In questo testo, Hillman propone una affascinante teoria da egli definita “Teoria della Ghianda“, secondo la quale ciascuno di noi giunge in questo mondo con una “preesistente” immagine che ci definisce. Utilizzando il linguaggio Aristotelico, “l’individualità risiede in una causa formale”. Nel linguaggio di Platone e Plotino, “ciascuno di noi incarna l’idea di sé stesso”. E questa idea non tollererebbe eccessive divagazioni, spingendo ciascuno di noi ad “adempiere” al proprio particolare destino.

Scrive infatti l’autore:
“è possibile, invece, che la nostra vita non sia determinata tanto dalla nostra infanzia, quanto dal modo in cui abbiamo imparato ad immaginarla.
I guasti non ci vengono tanto dai traumi infantili, bensì – è quanto si sostiene in questo libro – dalla modalità traumatica in cui ricordiamo l’infanzia come un periodo di disastri arbitrari e provocati da cause esterne che ci hanno plasmati male.
Questo libro, dunque, vuole riparare in parte a tali guasti, mostrando che cos’altro c’era, c’è, nella nostra natura.
Vuole risuscitare le inspiegabili giravolte che ha dovuto compiere la nostra barca presa nei gorghi e nelle secche della mancanza di senso, restituendoci la percezione del nostro destino.
Perché è questo che in tante vite è andato smarrito e va recuperato: il senso della propria vocazione, ovvero che c’è una ragione per cui si è vivi.

E questa sua tesi si basa naturalmente sul rifiuto dell’accettazione di un’interpretazione del paradigma della vita umana come mera interazione tra genetica ed ambiente. Tale assunto non può che condurre, infatti, ad una resa al fatto di esistere solamente in quanto semplice “risultato”, semplice conseguenza di forze meccaniche naturali.

Il Codice dell’Anima di Hillman vuole invece affermare l’esistenza di una particolare “vocazione”, di un particolare “destino”, “carattere” o “immagine innata”. L’idea fondamentale alla base della Teoria della Ghianda è proprio l’esistenza di una “unicità” di cui ciascuna persona è portatrice, che chiede di essere vissuta e che sarebbe già preesistente prima ancora di poter essere vissuta.

A sostegno delle sue osservazioni riporta gli esempi delle vite di alcuni personaggi famosi, tra cui Henry Kissinger, Gandhi, il violinista Yehudi Menuhin, Woody Allen e altri. Le loro infanzie, ricche di aneddoti e accadimenti particolari, sarebbero perfettamente leggibili, secondo Hillman, alla luce proprio dell’esistenza di “qualcosa” che ne ha guidato i passi verso la manifestazione di ciò che erano “destinati” ad essere.

Lasciamo al lettore di questo testo il compito di stabilire se queste sue osservazioni possono bastare a dimostrare una teoria che, in Psicologia, sarebbe piuttosto rivoluzionaria. Per quanto le sue idee possano essere ritenute condivisibili o meno, si tratta comunque di una trattazione che non può non incuriosire e non suscitare almeno il dubbio che, come viene ribadito con forza in molti articoli di questo sito, la vita potrebbe  effettivamente avere un fondamento teleologico. E il nostro Benessere Psicologico, se così fosse, potrebbe effettivamente avere molto a che fare con la consapevolezza di un fine ultimo della nostra esistenza.

In ogni caso, non si tratta certamente di un’idea del tutto nuova. Nemmeno in Psicologia, a ben vedere. Essa ha infatti molti aspetti in comune con quella che è stata definita la “quarta forza” (le prime tre “forze” della Psicologia sono la Psicoanalisi, il Comportamentismo e la Psicologia Umanistica), ovvero la Psicologia Transpersonale, o della realizzazione del Sé superiore o transpersonale.

E’ comunque lo stesso Hillman a ricondurre le sue osservazioni prima di tutto alle riflessioni filosofiche del più grande tra gli antichi pensatori greci. Di Platone, egli cita infatti il Mito di Er, di cui abbiamo già parlato in un articolo sul concetto di Destino. Nel suo aspetto inevitabilmente simbolico e considerato in un’ottica psicologica, questo mito è di straordinaria bellezza. Afferma in sostanza che la scelta del nostro destino è interamente nelle nostre mani, e non deve essere attribuita a volontà altrui. Così come afferma la teoria di Hillman, una ghianda, germogliando, non può che creare una quercia. Allo stesso modo, ciascuno di noi non sarebbe nient’altro che il frutto di un particolare “seme” di cui la nostra intera essenza, in maniera affascinante e misteriosa, ne sarebbe in qualche modo impregnata.

Che cosa ci può insegnare “Il Codice dell’Anima”?

Al di là delle personali teorie dell’autore, questo testo può avere un valore straordinario per tutti coloro che sono alla ricerca di strumenti per la crescita personale e la consapevolezza di sé. L’implicazione principale, a mio avviso, ha senza dubbio a che fare con un cambio di prospettiva nell’intervento psicologico. Almeno per le persone che, indipendentemente dal passato con cui si trovano ad avere a che fare, conservano adeguate capacità di riflettere su sé stesse e un sincero amore per la vita.

Qualunque siano state le nostre condizioni di sviluppo e indipendentemente da tutto ciò che ci ha fatto gioire o soffrire, in noi probabilmente è riconoscibile la tendenza fondamentale verso la realizzazione di un progetto. E in quanto Psicologo, personalmente non posso non riconoscermi nell’importanza di un’assunzione di questo tipo, per la vita di ciascuno di noi. Il compito dello Psicologo non si ridurrebbe allora al tentativo di sanare il passato o riparare alle ferite della persona (per quanto comunque nobile non sia già di per sé questo aspetto). Egli potrebbe offrire la sua esperienza per aiutare la persona a trovare il proprio fine individuale, unico e irripetibile, alla luce del quale le esperienza del passato possono assumere un nuovo significato.

Personalmente, non conosco nulla di più potente in termini di trasformazione interiore e cambiamento psicologico, che l’ingresso nella coscienza dell’Io della consapevolezza di ciò che realmente siamo e della nostra reale natura personale e transpersonale.


Ecco alcune citazioni interessanti, tratte dal testo:

“Tutti, presto o tardi, abbiamo avuto la sensazione che qualcosa ci chiamasse a percorrere una certa strada”.
“La vocazione si esprime nei capricci e nelle ostinazioni, nelle timidezze e nelle ritrosie che sembrano volgere il bambino contro il nostro mondo, mentre servono forse a proteggere il mondo che egli porta con sé e dal quale proviene”.

“Quanto più la mia vita viene spiegata sulla base di qualcosa che è già nei miei cromosomi, di qualcosa che i miei genitori hanno fatto o hanno omesso di fare e alla luce dei miei primi anni di vita ormai lontani, tanto più la mia biografia sarà la storia di una vittima”.
“La nostra vita non è determinata tanto dalla nostra infanzia, quanto dal modo in cui abbiamo imparato a immaginarla”.

“A questo punto, diventa straordinariamente facile comprendere la nostra vita: comunque siamo, non potevamo essere altrimenti. Niente rimpianti, niente strade sbagliate, niente veri errori. L’occhio della necessità svela che ciò che facciamo è soltanto ciò che poteva essere”.
“Dirò di più: ciò che conta non è tanto stabilire se un’interferenza abbia o no uno scopo; è importante, piuttosto, guardare con occhio sensibile allo scopo e cercare il valore nell’imprevisto. L’occhio sensibile allo scopo parte dal presupposto che gli eventi possono effettivamente essere accidenti. Il mondo è governato dalla follia non meno che dalla saggezza, dal caos non meno che dall’ordine. E altrettanto fatalistico e teleologico il credere nella casualità del cosmo quanto lo è il credere in un disegno cosmico. L’occhio sensibile allo scopo si limita a scrutare ciascun «accidente», come vengono chiamati questi eventi, per leggervi ciò che esso dice di sé”.

“La nostra sociologia, la nostra psicologia, la nostra economia (insomma, la nostra civiltà) sembrano incapaci di apprezzare il valore delle persone che non emergono e le relegano nella mediocrità dell’uomo medio di intelligenza media. Perciò il ‘successo’ finisce per assumere tutta quella esagerata importanza: offre l’unica via di fuga dal limbo della media.
Stampa e televisione vengono a pescarti soltanto quando piangi dopo una tragedia, quando dai in escandescenze davanti alla platea, o quando ti metti in posa per spiegare che cosa ne pensi; dopo di che, ti butta nuovamente nel calderone della mediocrità indifferenziata.
I media sanno adulare, celebrare, esagerare, ma non sanno immaginare, e dunque non sanno vedere.
In parole povere: non esiste una mediocrità dell’anima. I due termini sono incompatibili. Provengono da territori diversi: ‘anima’ è singolare e specifico; ‘mediocrità’ ti prende le misure con gli strumenti della statistica sociologica: norme, curve, dati, confronti.
Potrai anche risultare mediocre in tutte le categorie sociologiche, perfino nelle tue aspirazioni e realizzazioni personali, ma la maniera in cui si manifesta la tua mediocrità sociologica creerà un picco unico e irripetibile in qualsivoglia curva a campana. Non si danno taglie che vanno bene a tutti.”

“«Teleologia» è il termine usato per indicare la convinzione che gli eventi abbiano una finalità, siano attirati da uno scopo verso un preciso fine. Telos significa «scopo, fine, adempimento ». Si contrappone a «causa» nella nostra accezione moderna. La causalità domanda: «Chi ha dato il via a questo evento?», e immagina gli eventi come sospinti da dietro, dal passato. La teleologia invece domanda: «Qual è il fine? », e concepisce gli eventi come indirizzati verso una meta. Sinonimo di teleologia è finalismo, la concezione secondo cui ciascuno di noi, e come noi l’universo stesso, muove verso una meta finale”.
“Ci sono più cose nella vita di ogni uomo di quante ne ammettano le nostre teorie su di essa”.
“Invece che storie cliniche, lo psicologo leggerà storie di esseri umani; invece che la biologia, la biografia; anziché applicare l’epistemologia del pensiero occidentale alle culture altre, alle culture tribali o non tecnologiche, lasceremo che la loro antropologia (le loro storie sulla natura umana) si applichi alla nostra. Voglio rovesciare il modo di pensare della psicologia quale è insegnata e praticata oggi, nel tentativo ambizioso di redimere alcuni dei suoi peccati”.
“Dobbiamo prestare particolare attenzione all’infanzia, per cogliere i primi segni del daimon all’opera, per afferrare le sue intenzioni e non bloccargli la strada. Le altre conseguenze pratiche vengono da sé:
a) riconoscere la vocazione come un dato fondamentale dell’esistenza umana;
b) allineare la nostra vita su di essa;
c) trovare il buon senso di capire che gli accidenti della vita, compresi il mal di cuore e i contraccolpi naturali che la carne porta con sé, fanno parte del disegno dell’immagine, sono necessari a esso e contribuiscono a realizzarlo”.

“Una vocazione può essere rimandata, elusa, a tratti perduta di vista. Oppure può possederci totalmente. Non importa: alla fine verrà fuori. Il daimon non ci abbandona”.

“Voglio che riusciamo a vedere come ciò che fanno e che patiscono i bambini abbia a che fare con la necessità di trovare un posto alla propria specifica vocazione in questo mondo. I bambini cercano di vivere due vite contemporaneamente, la vita con la quale sono nati e quella del luogo e delle persone in mezzo a cui sono nati. L’immagine di un intero destino sta tutta stipata in una minuscola ghianda, seme di una quercia enorme su esili spalle. E la sua voce che chiama è forte e insistente e altrettanto imperiosa delle voci repressive dell’ambiente. La vocazione si esprime nei capricci e nelle ostinazioni, nelle timidezze e nelle ritrosie che sembrano volgere il bambino contro il nostro mondo, mentre servono forse a proteggere il mondo che egli porta con sé e dal quale proviene”.

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