Il simbolo della Fenice è senza dubbio uno dei più interessanti tra quelli aventi una forte risonanza psicologica. Esso è infatti da sempre associato al fenomeno della “rinascita”, essendo “l’uccello di fuoco” capace di risorgere dalle proprie ceneri.
Il Dizionario dei Simboli (Chevalier-Gheerbrandt) offre una definizione del simbolo della Fenice abbastanza sintetica e poco esaustiva. La descrizione ne evidenzia infatti sostanzialmente solo il tema della rinascita ciclica, dell’immortalità e della resurrezione, e il conseguente accostamento alla figura del Cristo nel corso dell’intero Medioevo.
Apre però uno spiraglio curioso sul collegamento tra “l’airone purpureo” degli Egizi e l’opera al rosso dell’alchimia, su cui tanto si è focalizzato il pensiero di Carl Gustav Jung.
Vale però forse la pena, prima di passare alle intuizioni del celebre psichiatra svizzero, riportare anche la descrizione del simbolo della Fenice offerta dall’Enciclopedia dei Simboli Garzanti. Oltre ai tradizionali significati legati al concetto di “rinascita dalle fiamme purificatrici”, il dizionario riporta anche un dettaglio narrato da antichi mitografi che, a proposito del simbolismo egizio della Fenice, veniva definito come un essere che “si nutre esclusivamente di rugiada, vola in terra straniera dove raccoglie erbe profumate che poi offre sull’altare di Heliopolis, posandosi infine sul fuoco e bruciando sino a diventare cenere. Dopo tre giorni però risorge”.
Purtroppo non vi sono ulteriori dettagli, ma, con riferimento alla medesima Enciclopedia dei Simboli, la rugiada viene definita come “quell’umidità che cade lieve dal cielo e ha l’effetto di vitalizzare e ringiovanire”.
Circoscrivendo l’analisi al simbolismo egizio della figura della Fenice, sembra dunque necessario riconoscerne una natura che trascende le possibilità dell’ordinarietà umana. Spesso il simbolo della Fenice viene sbrigativamente accostato anche al fenomeno della resilienza, ma sembra esserci qualcosa in più.
Volare in terra straniera (capacità di estendersi oltre i propri confini), raccogliere erbe profumate (elementi vegetali in grado di emanare la propria essenza più pura), offrirle in sacrificio (capacità di distacco persino dagli elementi materiali più sottili), nutrirsi di rugiada (alimentarsi con il “nettare degli dei”, con un’acqua proveniente dal cielo e non dalla terra).
L’atto della morte e della rinascita è dunque, in quest’ottica, un fenomeno che si inserisce al termine di un lungo processo di preparazione e di dimostrazione di idoneità ad una vita di trascendenza.
Sembra quindi possibile che, almeno secondo alcune tradizioni, una rinascita autentica non possa semplicemente essere il frutto delle circostanze, ma piuttosto l’atto finale di un ciclo di vita dedicato alla purezza complessiva dell’essere. Tra l’altro, la rinascita avviene tramite il più sottile degli elementi, quello che Jung associava alla funzione psicologica dell’Intuizione.
Dante e il Simbolo della Fenice
Del tutto in linea con la visione appena esposta del Simbolo della Fenice sembra essere anche quanto poeticamente espresso da Dante del XXIV canto dell’Inferno, in cui il sommo Poeta così si esprime, traendo quasi letteralmente questi versi da Ovidio (1):
Così per li gran savi si confessa
che la fenice more e poi rinasce,
quando al cinquecentesimo anno appressa; (108)
erba né biado in sua vita non pasce,
ma sol d’incenso lagrime e d’amomo,
e nardo e mirra son l’ultime fasce. (111)
La Fenice non si nutre “nè di erba, nè di biada”, ma solo di “lacrime di incenso e di amomo”, e il suo ultimo drappo funebre è costruito con “mirra e foglie di nardo”. Il mitologico animale viene dunque anche qui descritto come una figura le cui caratteristiche vanno ben al di là dell’ordinaria natura animale.
Sia il suo nutrimento che la materia con cui costruisce il suo ultimo involucro hanno a che fare con elementi vegetali preziosi e per lo più usati nella profumazione. E ciò che profuma si presta con una certa facilità a simbolizzare aspetti di natura trascendente, avendo in sé la capacità di irradiare finemente la propria natura più sublime.
Il Simbolo della Fenice nella Psicologia Analitica di Jung
Il fascino che la disciplina dell’Alchimia ha esercitato sugli studi di Carl Gustav Jung è stato così grande che buona parte delle sue opere ne ha il genuino sapore. Lo psichiatra svizzero è senza dubbio lo studioso che più ha contribuito a reinterpretare la “Magnum Opus” in chiave psicologica.
Tra le fasi della trasformazione alchemica, la “Rubedo” (o “Opera al Rosso”) è considerata l’ultima, in cui la materia solida, dopo le diverse fasi di trasformazione, diviene gassosa. Questa fase è stata associata proprio al simbolo della Fenice, e a sua volta all’archetipo del Sé e alla sua piena realizzazione all’interno della coscienza individualizzata.
Jung ha dunque descritto l’ultima fase del processo alchemico come la piena realizzazione del processo di individuazione, finemente associabile al simbolo della Fenice che grazie alla distruzione della sua “vecchia natura” è ora libera di rinascere con uno spirito rinnovato e reso sottile, etereo, dalle fiamme trasmutanti e sublimanti del fuoco. Il colore associato a questa fase è dunque il rosso, e come riportato dal già citato Dizionario dei Simboli, anche la Fenice era nota presso gli egizi come “airone purpureo”.
NOTE
(1) – Si vedano le note al Canto XXIV dell’Inferno in questa pagina.