In un breve articolo pubblicato sul suo sito internet dal titolo “Aristotle’s Prescription for Happiness“, il Prof. Michael W. Austin della Eastern Kentucky University ci ricorda come dal punto di vista del grande filosofo greco la felicità non sia qualcosa che ci viene dato a priori, ma piuttosto una condizione che può essere raggiunta. Molti di noi, fa notare l’autore, sperano che le circostanze della vita possano donare momenti di autentica felicità. Tendiamo a pensare che la felicità possa derivare dal successo professionale, dalla famiglia, da una bella casa o da un fortunato biglietto della lotteria.
Il grande filosofo greco Aristotele aveva però una visione sostanzialmente diversa. Ammetteva tranquillamente che nella vita un po’ di fortuna può aiutare molto nel percorrere la strada verso la felicità, ma non può certamente essere questo il fattore su cui fare affidamento per una condizione duratura e piena.
Per raggiungere questa condizione sarebbe infatti indispensabile praticare la Virtù. Il prof.Austin, partendo da questo spunto, afferma che quando riusciamo a praticare le virtù dell’equanimità, della gentilezza, del coraggio, della generosità e della saggezza, possiamo beneficiare di uno stato di profonda soddisfazione e di realizzazione personale non realizzabile con nessun altro mezzo.
Ma che cos’è in effetti la Virtù? Secondo il Dizionario Garzanti di Psicologia, consisterebbe nella “eccellenza di una capacità o di una qualità […]. L’elaborazione filosofica di questa nozione caratterizza la virtù come dominio della parte razionale sugli impulsi istintivi della natura umana, facendone uno dei concetti cardine della morale. In questa accezione il concetto ricorre in ambito psicopedagogico dove l’educazione alla virtù è un’educazione al dominio di sé”.
La definizione del prof.Austin sembra dunque più ampia e generica, meno vincolante alla questione del “dominio di sé”. Vediamo però che cosa intendeva Aristotele con questo concetto quantomai frainteso oggi. Riportiamo uno spunto significativo dalla definizione datane nell’Enciclopedia Treccani:
“Per Aristotele la virtù non è «per natura»: come non nasciamo con idee e conoscenze innate, così non nasciamo con virtù innate, ma con un’anima che è adatta a essere modificata mediante l’esercizio continuo.
Pertanto, così come suonando la cetra diventiamo citaredi – dice Aristotele –, così operando cose giuste diventeremo uomini giusti.
Ma qual è il criterio per individuare un’azione come virtuosa?
A questo proposito Aristotele avanza la teoria del giusto mezzo: la virtù è misura, che porta a eliminare i comportamenti estremi (cioè i vizi opposti, contrassegnati o da un eccesso o da un difetto) e a scegliere un punto di equilibrio.
Compito della razionalità dell’uomo è proprio quello di dare una misura, un limite all’elemento irrazionale (cioè passionale e istintivo): il coraggio, per esempio, è una virtù in quanto è il giusto mezzo tra gli opposti della viltà e della temerarietà, ed eguale discorso si può fare per tutte le altre virtù”.
Abbiate la forza dell’uomo ma mantenete la delicatezza della donna! Siate una valle sotto il cielo; in questo modo la virtù non vi abbandonerà mai
il TAO
Da tutto questo possiamo dunque dedurre che uno stato autentico e stabile di felicità deve essere “costruito” in noi a partire dalla volontà di applicare la Virtù alla nostra vita. Se puntiamo tutto sull’auspicio che le circostanze ambientali, per quanto favorevoli, possano assicurarci una duratura felicità, corriamo il rischio di andare incontro ad una delusione.
L’aspetto più importante, in tutto questo, è però il fatto che già dall’antichità classica era noto che possiamo essere solamente noi stessi a determinare il nostro stato di felicità. Essere felici, alla fine, è una nostra responsabilità.
Benchè in Psicologia non vi sia ancora un consenso unanime sull’esatta differenza tra Felicità e Gioia, personalmente preferisco sempre quest’ultimo per riferirmi a quella condizione stabile di luminosa bellezza interiore che caratterizza le anime più nobili. Per quanto la pratica della Virtù possa arricchire interiormente l’individuo e condurlo ad uno stato di intenso benessere interiore, elevare il nostro animo alla Gioia più sublime è qualcosa di diverso.
Lo stato di Gioia (o di Felicità) più autentica va persino oltre la vita virtuosa. Esso si fonda su una consapevole realizzazione interiore della propria più autentica natura. La persona che conosce la Gioia più sublime ha senza dubbio mosso un importante passo nella direzione dell’ingiunzione delfica “conosci te stesso“. Ed è proprio la conoscenza di sé stessa, da un punto di vista emozionale, mentale e psico-spirituale, a creare uno stato interiore di Gioia totalmente svincolato dal contesto ambientale.
Mi trovavo a lottare contro i miei fantasmi
Franco Battiato – (Stati di Gioia)
spostandomi in avanti per quanto lo permette la catena
scopersi per caso lo stato che ascende alla Gioia
Per quanto possa apparire paradossale, possiamo essere felici persino nei momenti più difficili della vita. Se conosciamo sufficientemente noi stessi e siamo in grado di disidentificare il nucleo centrale eterno e luminoso della nostra coscienza dai contenuti della medesima, siamo anche in grado di vedere la vita da una posizione molto più elevata in termini di consapevolezza. Per fare un esempio, dovremmo partire da questioni molto semplici come l’essere in grado di riconoscere la presenza della tristezza in noi stessi (“vi è della tristezza in me”), evitando di identificarci con questo stato affermando “io sono triste”.
Pur nella piena consapevolezza di essere toccati dalla sofferenza, anche un solo barlume di consapevolezza sulla natura di quel nucleo centrale della nostra coscienza che possiamo definire Sé Superiore (o Transpersonale) può avviare in noi un processo di riconoscimento, accettazione e rielaborazione del dolore. Conoscere sé stessi, in pienezza e saggezza, significa dunque permanere per la maggior parte del tempo in quello stato che abbiamo definito di Gioia non derivante dalle nostre reazioni emozionali alle circostanze della vita, che contempla naturalmente l’annullamento di ogni pena.
Per concludere, vorrei riportare anche la frase iniziale del brano musicale di Battiato che abbiamo appena citato. Pur trattandosi di parole di uso piuttosto comune, a mio avviso e con riferimento al modo in cui abbiamo trattato la questione della Felicità e della Gioia, possiedono un enorme spessore, psicologico ed esistenziale: “Le azioni del mondo non influenzano il sole”. Il pezzo musicale si intitola “Stati di Gioia”, e penso davvero che per realizzare in noi uno stato di questo tipo l’atteggiamento interiore da assumere sia proprio quello simbolicamente rappresentato dal Sole, che illumina il mondo ma non ne è da questo minimamente influenzato.