“La strada che non porta alla felicità” è il titolo di un articolo contenuto in una interessante raccolta di saggi (1) ad opera del compianto prof. Giovanni Reale, figura di grande rilievo nel panorama filosofico italiano. Il nucleo centrale della sua riflessione può certamente risultare oggi qualcosa di già ben noto alla maggior parte delle persone, ma la parte più interessante delle sue argomentazioni è il porre in evidenza il fatto che persino agli antichi filosofi era già noto tutto ciò che non doveva essere fatto per realizzare un’esistenza felice.
Oggi l’umanità intera sta ancora attraversando una crisi senza precedenti nel mondo moderno. Forse l’errore più grave che potremmo fare è desiderare semplicemente che gli effetti dell’attuale pandemia possano presto scomparire, per poter rispristinare le abitudini di comportamento e pensiero che caratterizzavano il nostro vivere antecedentemente alla crisi.
Oggi abbiamo la possibilità di prendere ancora più seriamente in considerazione riflessioni come quelle del prof. Giovanni Reale, cercando di scoprire (o riscoprire) un senso di maggiore autenticità e profondità del vivere quotidiano.
La moderna tecnica, afferma il filosofo, ha messo a disposizione dell’uomo una quantità di cose e beni materiali che non solo non aveva mai avuto, ma non aveva nemmeno mai pensato di poter avere. Mi torna in mente a questo proposito una frase di Steve Jobs, che suonava più o meno così: “La gente non sa ciò che vuole, finché non glielo fai capire tu…”.
Il geniale visionario aveva ben intuito una delle più grandi debolezze umane, messe in evidenza da Reale nel suo articolo: la tecnica, la mentalità e i modelli culturali che hanno condotto al moderno panorama consumistico non solo non soddisfano in modo radicale i desideri umani, ma paradossalmente li moltiplicano e li rendono più prepotenti.
Per questo motivo, Socrate affermava che il segreto della felicità sta nel paradosso opposto, ovvero nel “porre il limite ai bisogni e nel rendere l’anima signora del corpo e dei suoi bisogni, in una parola, nell’autodominio (enkrateia)”. Il non dipendere dai possedimenti e la capacità di porre limiti al desiderio di godimento dei beni, afferma ancora Reale, era il tema dominante della saggezza dell’età ellenica e di quella imperiale, che lo espressero nelle forme più varie e più belle.
Ad onor del vero andrebbe comunque ricordato che anche nelle filosofie orientali questa concezione era ben nota. La filosofia Buddista ad esempio ha sempre insistito sul non attaccamento al desiderio dei beni materiali, come via verso la felicità. E questo perchè, come ricordava anche Roberto Assagioli, “Siamo dominati da tutto ciò con cui ci identifichiamo, possiamo dominare tutto ciò da cui ci siamo disidentificati”.
Credo sia però importante notare come la causa dell’infelicità non sia di per sé il possesso o la disponibilità di abbondanza di beni, ma l’atteggiamento assunto verso di essi. Una persona di modestissime disponibilità che vive ossessionata dal pensiero di ciò che bremerebbe possedere sarà certamente molto più infelice di qualsiasi persona ricca e ben consapevole dei limiti dei propri possedimenti nella realizzazione della propria felicità e pienezza del vivere.
Non possiamo dunque attribuire al benessere, come modernamente inteso, in tutte le sue forme, il potere di stabilire ciò che ci può rendere felici o infelici. Eraclito affermava che “se la felicità consistesse nei piaceri del corpo, dovremmo dire felici i buoi, quando trovano da mangiare”. E per Democrito, ancora più esplicitamente, “la felicità non consiste negli armenti e neppure nell’oro: l’anima è dimora della nostra sorte”.
Anche Socrate affermava “se vuoi essere felice, cura la tua anima”, a cui Platone aggiunse il concetto pitagorico di “armonia dell’anima”. La felicità non si realizza in ciò che si possiede, ma è uno stato dell’essere caratterizzato dalla virtù (areté).
NOTE BIBLIOGRAFICHE
(1) Reale G., 2004, Valori dimenticati dell’Occidente, Tascabili Bompiani – RCS Libri, Milano