“… Alla fine, siamo nati per soffrire…”
Ti è mai capitato di sentire un’affermazione come questa? Un amico, un conoscente, una persona cara. Qualcuno, nel bel mezzo di un momento di difficoltà, si è mai lasciato andare in tua presenza ad affermare che siamo nati per soffrire? E quale reazione hanno suscitato in te queste parole?
Nel corso della mia vita mi è talvolta capitato di accogliere questo tipo di riflessione da parte di qualche persona. Spesso però sotto forma di interrogativo. Gli eventi della vita, talvolta tragici o dolorosi, possono indurci a pensare che non vi possa essere alternativa alla realtà che viviamo. E la persona in difficoltà si chiede allora se davvero siamo tutti nati per soffrire. Si chiede se siamo al mondo solo per condurre un’esistenza difficile, condannati all’infelicità.
Onestamente, non ho i mezzi per poter rispondere a questa impegnativa domanda. Sembrerebbe fin troppo semplice sbarazzarsi di questa convinzione ribadendone l’assurdità. Purtroppo però il dolore non è facilmente eliminabile dalle nostre vite. Dal punto di vista di chi soffre, o che ha sofferto a lungo, una tale affermazione ha purtroppo un fondamento. E questo punto di vista deve essere rispettato, perchè spesso si tratta di una silenziosa richiesta di aiuto.
A poco serve richiamare la persona alla razionalità e al buon senso. Ancora meno serve ribadire che gli eventi della nostra vita sono governati dalla nostra abilità di prevederli e dominarli. Ciò non farebbe altro che aumentare nell’individuo la convinzione di non essere ascoltato e compreso con adeguata empatia.
Il senso della sofferenza
Da un più ampio punto di vista “filosofico”, la questione sembra ben più complessa. La drammaticità della vita di alcune persone sembrerebbe suggerire che qualcuno sembra effettivamente essere proprio nato per soffrire.
Da quanto ho potuto osservare, in fondo al proprio cuore nessuno è onestamente convinto della fondatezza di questa affermazione. E’ solo in un momento di rassegnazione, di depressione o di richiesta di attenzione, che ci lasciamo andare alla convinzione che il fine della nostra esistenza possa essere la sofferenza.
Ma d’altra parte non possiamo non tenere conto che, in fin dei conti, alcuni dei più importanti sistemi filosofico-religiosi sono nati proprio per offrire una risposta al bisogno dell’uomo di dare un senso alla sofferenza. In duemila anni di Cristianesimo, il valore “redentivo” o “espiatorio” della sofferenza ha costituito la base di molti insegnamenti teologici.
Con un fine molto più “pratico”, anche il Buddhismo ha affrontato la questione della sofferenza. Basti pensare alle “Quattro Nobili Verità“. Quattro indicazioni estremamente sintetiche per poter prendere coscienza dell’esistenza del dolore e delle misure attuabili per superarlo.
Come affrontare la questione da un punto di vista psicologico?
L’intera questione della sofferenza non può dunque essere liquidata con un richiamo al buon senso. Personalmente ho potuto osservare quanto invece possa essere d’aiuto una riflessione molto più ampia sul tema. Per assurdo, anche se fossimo davvero nati per soffrire, dovremmo allora rassegnarci al verdetto? Oppure la nostra stessa natura umana ci richiama alla responsabilità di cercare una via per risolvere, superare o trascendere il nostro dolore?
La storia dell’uomo è straordinariamente ricca di risposte affermative a quest’ultimo quesito. Anche nei momenti più bui, siamo chiamati a non concedere nulla alla sirena che ci invita a lasciarci sedurre da una facile resa al pessimismo. Parole come quelle che seguono, tratte dalla poesia Invictus di William Ernest Henley, ne sono un significativo esempio
“[…] Non importa quanto angusta sia la porta,
quanto impietosa la sentenza,
io sono il padrone del mio destino,
il capitano della mia anima.
E’ dunque di fondamentale importanza realizzare che, anche se per assurdo fossimo nati proprio per soffrire, la nostra vita non avrebbe alcun senso se ci limitassimo a subire la sofferenza. Questa convinzione non ci autorizzerebbe comunque a sottrarci al dovere di ricercarne l’elemento teleologico, con tutte le forze che abbiamo. Come infatti ci ricordano queste preziose parole di Roberto Assagioli, il dolore non è qualcosa a cui aggrapparsi.
“Il riconoscimento delle preziose funzioni del dolore non deve indurci a sopravalutarlo, a farne un culto, fino a non tentar di alleviarlo o peggio ad infliggerlo agli altri (o anche a noi stessi), quando ciò non sia veramente necessario o sicuramente utile.
Si può dire, un po’ paradossalmente, che il dolore ha valore se ed in quanto porta alla propria eliminazione, al proprio superamento.
In altre parole il dolore non è fine a se stesso, ma un mezzo per produrre certi effetti, per insegnare certe lezioni.
Quando esso ha assolto queste funzioni, possiamo e dobbiamo dirgli “grazie” e poi lasciarlo indietro risolutamente”.
(Dall’introduzione al testo “Dal dolore alla Pace – Ilario Assagioli“).
Abbandonare la convinzione di essere nati per soffrire eleva il nostro animo
Siamo probabilmente ormai tutti persuasi del fatto che la sofferenza possa davvero elevare il nostro animo, condurci alle porte del nostro Sé, trasformare le nostre vite, ecc… Questo è però vero solo ad uno stato potenziale. La sofferenza ha effettivamente lo straordinario potere di renderci uomini migliori, non è assolutamente scontato che lo faccia.
Molte persone che soffrono diventano in realtà peggiori. Molti vengono di fatto imbruttiti dalla loro sofferenza. Se vogliamo renderci ridicoli agli occhi di queste persone, è sufficiente esporre loro la nostra convinzione sul valore nobilitante del dolore.
Forse andrebbe spiegato più chiaramente che queste nostre affascinanti parole andrebbero pronunciate solo da chi ha a lungo attraversato la valle del dolore. Solo chi ha trovato la via verso quella luminosa pace interiore che cede il posto al buio dell’anima, diventa credibile nel fare affermazioni così impegnative.
E queste persone possono affermare con certezza che sta effettivamente a noi imparare a vivere consapevolmente il dolore. Sta a noi renderci conto che mentre le nostre emozioni sono travolte dalla sofferenza, qualcosa in noi, qualcosa di impercettibilmente sottile ma consapevolmente presente, rimane imperturbato, perfettamente in equilibrio.
In altre parole, la parte più nobile del nostro cuore può vivere con distacco la sofferenza. Al nostro livello più elevato, al livello dell’anima, la sofferenza si fa tollerabile. Riesce addirittura a far trapelare, intuitivamente, un perchè. E, come dice un vecchi detto, se si ha un “perchè” nella vita, si può sopportare qualsiasi “come”.
E’ questo però un processo che possiamo affrontare solo se siamo in grado di accogliere consapevolmente il nostro dolore. Quella di soffrire consapevolmente, alla fine, è una scelta. Una scelta che ci pone al riparo dall’essere travolti dal “non-senso” delle cose e dunque da un’angosciosa depressione. Dobbiamo concentrarci sul far emergere sempre più “scopo” nelle cose, e questo ci illuminerà sul perchè.
Non ci stupirà allora l’affermazione di Roberto Assagioli, che la gioia, più che un diritto, è un nostro dovere. Una nuova alba è sempre pronta a sorgere nella nostra vita, se decidiamo di accoglierla. Nuovi raggi di sole possono far scomparire il grigio sentiero su cui a lungo abbiamo vagato.