L’atteggiamento nei confronti della morte che tendiamo ad avere oggi è semplicemente quello di ignorarla, come se non esistesse. E’ un argomento tabù, che cerchiamo di mantenere lontano dalle nostre conversazioni e dai nostri pensieri, come se non ci riguardasse. Si crede che a pensare alla morte siano solo le persone depresse, pessimiste o “negative”.
Oggi bisogna essere “positivi” ad ogni costo, ottimisti, orientati alla soddisfazione dei propri desideri e focalizzati sui risultati che pensiamo sia giusto realizzare. Pensare alla morte servirebbe dunque solamente ad intralciare quell’atteggiamento ottimistico che aiuta molto ad allinearsi alle esigenze della moderna realtà sociale e professionale.
Quando mi trovo a riflettere sulle questioni legate al tema della morte in psicologia, non posso non pensare alle illuminanti parole del Dalai Lama (già citate nella sezione “Lo Psicologo Risponde” dedicata proprio al tema della morte):
“Quello che mi ha sorpreso di più negli uomini dell’Occidente è che perdono la salute per fare i soldi e poi perdono i soldi per recuperare la salute.
Dalai Lama
Pensano tanto al futuro che dimenticano di vivere il presente in tale maniera che non riescono a vivere né il presente, né il futuro.
Vivono come se non dovessero morire mai e muoiono come se non avessero mai vissuto”
Sono parole di straordinario valore, non solamente morale o spirituale, ma anche psicologico, con un risvolto molto più pratico e concreto di quanti potrebbe superficialmente sembrare. Sono una perfetta sintesi dell’atteggiamento che l’uomo moderno (forse, ormai, non più solo quello occidentale) tende ad assumere per non pensare alla morte.
Personalmente credo che tanto un atteggiamento “morboso”, quanto uno di evitamento nei confronti del termine della nostra vita, siano da considerare entrambi sbagliati. Pensare alla morte in maniera ossessiva potrebbe essere il segnale della presenza di qualche tematica da rielaborare. Ma anche fare di tutto per allontanarne il pensiero non sembra indice di sano ed equilibrato atteggiamento verso un ambito così importante della vita umana. Può anch’esso infatti nascondere timori, angosce o l’incapacità di accettare l’inevitabilità del termine della vita umana.
La morte e la Psicologia Esistenziale
Irvin D.Yalom, docente di psichiatria alla Stanford University e scrittore di fama internazionale, affronta spesso nei suoi testi il tema della morte. In accordo con le sue riflessioni personali, pensare alla morte non sarebbe altro che un fatto naturale nell’uomo. Così infatti si esprime in un suo lavoro di recente uscita:
“Non è possibile lasciare la morte a chi sta morendo. Il confine biologico tra la vita e la morte è relativamente preciso ma, psicologicamente, la vita e la morte si fondono l’una nell’altra. La morte è un fatto della vita, e la riflessione di un momento ci dice che la morte non è semplicemente l’ultimo momento della vita.
Secondo Manilio, «nascendo moriamo e la fine comincia dall’inizio»5. Montaigne, nel suo saggio penetrante sulla morte, chiese: «Perché temi il tuo ultimo giorno? Esso non contribuisce alla tua morte più di ciascuno degli altri. L’ultimo passo non causa la fatica, la fa manifesta».
Tra i grandi pensatori (in generale all’inizio o verso la fine della vita) che hanno riflettuto intensamente e hanno scritto sulla morte, molti sono giunti alla conclusione che la morte sia inestricabilmente una parte della vita, e che tenere perennemente in considerazione la morte non impoverisca la vita, bensì la renda più ricca. Anche se la fisicità della morte distrugge l’uomo, l’idea della morte lo salva“ (1).
Pensare alla morte con il giusto atteggiamento
Quale dovrebbe dunque essere il giusto atteggiamento da assumere nei confronti della morte? Come è possibile pensare alla morte in maniera sana ed equilibrata? La risposta può essere solamente una: dando un grande valore alla vita; vivendo consapevolmente ogni giorno in cui possiamo beneficiare di questo dono. Consapevolmente non significa intensamente, o alla ricerca di emozioni in grado di colmare un senso di vuoto. Significa proprio… consapevolmente.
Significa essere in grado di esprimere la nostra gratitudine verso tutto ciò che la vita ci offre, indipendentemente dalle condizioni in cui ci troviamo ad interpretare il nostro ruolo nel mondo. Significa pensare ogni giorno a quale potrebbe essere il fine ultimo del nostro esistere, e quale senso dovremmo dare alla vita stessa, ai rapporti con le persone, alle risorse e alla conoscenza di cui disponiamo. Significa assumersi la responsabilità di vivere degnamente, creativamente e coscienziosamente, senza rimpianti per il passato, liberi dal senso di colpa e dall’autocommiserazione. Significa pensare ogni giorno se la persona che siamo è al stessa che vorremmo essere nel momento in cui saremo chiamati a prendere congedo dalla vita.
Credo valga la pena riportare anche un secondo spunto di riflessione sempre dal testo già citato, in cui Yalom espone il modo in cui Heidegger analizzò il modo in cui pensare alla morte, in ultima istanza, fa bene alla vita. Ecco le sue parole:
“Nel 1926 Heidegger esplorò la questione del come l’idea della morte possa salvare l’uomo, e arrivò all’intuizione importante che la consapevolezza della nostra morte personale agisce come uno sprone per spostarci da una modalità dell’esistenza a una superiore.
Heidegger credeva che ci fossero due modalità fondamentali dell’esistenza nel mondo: 1) una modalità basata sull’oblio dell’essere e 2) una modalità basata sulla consapevolezza dell’essere.
Quando si vive in uno stato di oblio dell’essere, si vive nel mondo delle cose e ci si immerge nelle distrazioni quotidiane dell’esistenza: uno è “abbassato di livello”, assorbito in “chiacchiere oziose”, perduto nel “loro”. Ci si arrende al mondo quotidiano, a una preoccupazione del modo in cui le cose sono.
Nell’altro stato, lo stato della consapevolezza dell’essere, non ci si meraviglia del modo in cui le cose sono ma del fatto che esse siano. Esistere in questo stato significa essere continuamente consapevoli dell’essere. In questo stato, al quale spesso ci si riferisce come «stato ontologico», si rimane consci dell’essere, consci non solo della fragilità dell’essere ma anche della responsabilità per il proprio essere. Dato che è solo in questa modalità ontologica che si è in contatto con la propria creazione di sé, è solo qui che si può afferrare il potere per cambiare se stessi.
Di solito si vive nella prima modalità. L’oblio dell’essere è la modalità quotidiana dell’esistenza. Heidegger la ritenne una «fuga deiettiva», vale a dire una modalità del «non scelto coinvolgimento nel Nessuno».
Tuttavia, quando si entra nella seconda modalità dell’essere (la consapevolezza dell’essere) si esiste in modo autentico (da cui il frequente uso moderno del termine “autenticità” in psicologia). In questa condizione si diventa pienamente consapevoli di sé, ovvero consapevoli di sé in quanto io trascendentale (che si va costituendo) ed empirico (che si è costituito); si comprendono le proprie possibilità e i propri limiti; ci si trova di fronte a una libertà assoluta e al nulla, e si prova angoscia al loro cospetto.
Ma cosa ha a che fare la morte con tutto ciò? Heidegger si rese conto che non ci si muove da uno stato di dimenticanza dell’essere a una consapevolezza più illuminata e angosciosa dell’essere attraverso la semplice contemplazione, sforzandosi, stringendo i denti. Ci sono certe condizioni inalterabili e irrimediabili, certe esperienze pressanti che scuotono e strappano fuori una persona dalla prima, quotidiana, modalità dell’esistenza per portarla alla modalità della consapevolezza dell’essere. Tra queste esperienze pressanti […] la morte rappresenta il non plus ultra: la morte è la condizione che rende possibile vivere la vita in maniera autentica“.
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(1) – Irvin D.Yalom – Psicoterapia Esistenziale – Neri Pozza Editore