Psicologia e religione di fronte alla crisi esistenziale

Una riflessione sul rapporto tra Psicologia e Religione, e sul valore esistenziale dell'esperienza spirituale intesa in senso più generale
Psicologia e religione di fronte alla crisi esistenziale
Psicologia e religione di fronte alla crisi esistenziale
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Accostare psicologia e religione risulta “antiscientifico” in molti ambienti e per molte persone. E senza dubbio si tratta di due ambiti dell’esperienza umana che hanno caratteristiche e fondamenti molto diversi. Le grandi religioni hanno accompagnato la storia dell’uomo nel corso dei secoli, permeandone abbondantemente l’intera esistenza. La psicologia moderna è nata invece solamente nella seconda metà del 1800, ma gode oggi del riconoscimento di disciplina scientifica.

In questi giorni la mia curiosità è stata attratta da un articolo relativo ad una ricerca condotta presso l’Università dell’Illinois, che ha studiato il modo in cui le persone con un’inclinazione religiosa tendono ad affrontare le situazioni di crisi psicologica.

Il prof. Florin Dolcos, che ha condotto la ricerca assieme ad altri due colleghi, ha affermato che le persone religiose sembrano utilizzare alcuni degli strumenti che gli psicologi considerano spesso efficaci nel prestare aiuto alle persone quando vi è necessità di migliorare il benessere personale o proteggere dall’angoscia.

In sostanza, ciò su cui la ricerca si è focalizzata è il cosiddetto “stile di coping”. Grazie al supporto della fede religiosa (o, più in generale, di un approccio spirituale), queste persone sembrano tendere con più facilità a cercare di riformulare le situazioni negative in una visione più positiva.

Inoltre, il fatto stesso di confidare in qualcosa di più elevato, aumenterebbe anche il grado di fiducia nella propria capacità di riuscire a far fronte alla crisi. Il vantaggio più diretto di questa modalità di approccio alla vita avrebbe, secondo i ricercatori, un impatto favorevole sulla riduzione di sintomi ansiosi o depressivi.

L’esempio riportato nell’articolo è di per sé piuttosto banale, ma ci offre l’opportunità di formulare qualche riflessione di carattere più generale. Quando muore un congiunto o una persona cara, affermano gli autori, chi affronta il dolore in ottica religiosa o spirituale tende ad alleviare il dolore con la consolazione che la persona ora “è con Dio”, “è nella pace eterna”.

Le persone che non si riconoscono in una visione religiosa della vita possono trovare altrettanto sollievo pensando invece ad esempio al fatto che “almeno ora sono cessate le sue sofferenze”. Sono entrambe modalità per riformulare la situazione in modalità più positiva, secondo il parere dei ricercatori.

Il mio interesse verso gli aspetti più spirituali della Psicologia credo appaia con sufficiente chiarezza osservando i contenuti di questo sito. Ricerche di questo tipo dovrebbero pertanto risultare particolarmente interessanti, ma credo che non dimostrino assolutamente nulla di controintuitivo.

Vista in un’ottica come questa, la religione assume un carattere di tipo “consolatorio”, che, personalmente, ritengo utile solamente in un’ottica di tipo supportivo, quando, in una persona particolarmente credente, non sembra esservi altra possibilità di reinterpretare il dolore in un’ottica che possa conferire maggior valore esistenziale all’esperienza.

Un approccio più profondamente ed autenticamente spirituale non si ferma a riflessioni basilari come queste. Quando la persona, religiosa o no, possiede uno spessore interiore di grande bellezza e profondità, dal dolore possono nascere riflessioni enormemente trasformative sull’attribuzione di senso alla propria esistenza.

Il lavoro non si limiterà in questo caso a riformulare la visione della realtà con l’obiettivo di alleviare il dolore. Quando possibile, ci si pone il ben più ambizioso obiettivo di riuscire ad accogliere, ascoltare, rielaborare e superare il dolore, dando modo all’individuo di attraversare quel particolare momento esistenziale uscendone arricchito, e con un grado di consapevolezza molto più profondo sul senso dell’esistenza stessa.

Si tratta di un percorso che richiede generalmente tempi più lunghi, ma che offre maggiori opportunità per riuscire a dare un senso anche alle esperienze più difficili. E’ un percorso che non richiede un’inclinazione religiosa o una particolare pratica di fede.

Per questa ragione ho sempre manifestato grande interesse verso il metodo dell’Esperienza Immaginativa, perchè sulla base della mia esperienza personale è una tecnica che opera con il massimo rispetto degli orientamenti religiosi delle persone, ma si presta perfettamente ad un lavoro profondamente spirituale anche con soggetti del tutto estranei al mondo della fede. La Psicologia non si rapporta in questo caso con la religione, ma con il ben più ampio mondo della trascendenza e dell’esperienza spirituale.

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