La solitudine è necessariamente un’esperienza negativa?
Spesso tendiamo a credere che l’esperienza della solitudine non possa che avere conseguenze deprimenti per l’essere umano. E non di rado questa condizione genera nelle persone stati dell’umore che si configurano in autentiche patologie, come quelle di tipo depressivo.
Molte persone però, con il loro esempio, hanno lasciato testimonianza del fatto che la solitudine può avere una funzione estremamente preziosa per chi sappia elaborarla interiormente in maniera costruttiva. Spesso addirittura sembra non ci sia una modalità più proficua per consentirci di entrare in contatto con noi stessi se non quella di trovarci soli con noi stessi, senza interferenze esterne. Einstein ad esempio affermava “Vivo in quella solitudine che è penosa in gioventù, ma deliziosa negli anni della maturità”.
Stiamo qui naturalmente facendo riferimento a quel tipo di solitudine che, almeno in parte, è frutto di una deliberata scelta di sperimentazione della realtà. Benché nel tempo anche i momenti di solitudine più forzata possano trasformarsi in una accettata e preziosa “compagnia”, generalmente il tipo di solitudine che nutre e rivela la nostra anima è consapevolmente scelto da noi stessi.
La ricchezza del nostro mondo interiore difficilmente si rivela nel frastuono della vita quotidiana, nella frenesia dei rapporti a cui la quotidianità ci costringe. Essa tende più spontaneamente ad emergere tra le pieghe di quegli spazi che scegliamo di dedicare a noi stessi, come mezzo di conoscenza autentica.
A volte la solitudine non è evitabile, e in quei momenti ci è offerta la facoltà di scegliere. Scegliere se tentare di allontanarla ad ogni costo dalla nostra realtà, se imparare in qualche modo a tollerarla o conviverci, oppure se riuscire addirittura a farne un momento di consapevolezza. Qualunque sia la sua origine, essa non ci costringe a soffrirne, perchè tale scelta spetta responsabilmente solo a noi: possiamo scegliere se accogliere nella nostra coscienza la magia della sua azione, oppure se irrigidire le nostre difese al fine di attenuare la paura di quella sensazione di vuoto che spesso la accompagna.
“Si crede che solitudine significhi angoscia,
Walter Bonatti
per me non è così:
è un momento positivo, prezioso, un’occasione per guardarmi dentro, giudicarmi, capirmi o almeno di tentare di farlo.
La solitudine acutizza la sensibilità ed amplifica le emozioni”
Il coraggio della solitudine
La scelta di vivere consapevolmente la solitudine è una scelta che richiede coraggio. Stare soli con noi stessi richiede di saper accettare quel dialogo interiore che può condurre alla scoperta di come siamo fatti davvero, di quali sono le cose che nascondiamo a noi stessi, di quali sono le nostre vere emozioni e delle nostre più autentiche inclinazioni. La nostra sensibilità inevitabilmente si affina e le nostre emozioni si rincorrono, fino a quando non riusciamo ad armonizzare quell’incessante flusso di pensieri che le veicolano.
Ed è forse proprio questo il processo psicologico che trasforma il piombo della sofferenza nell’oro della consapevolezza di sé, mediante il processo alchemico della solitudine. Questo è il percorso lungo il quale possiamo finemente armonizzare la nostra psiche, elevandoci addirittura sopra di essa e pervenendo a quelle vette immacolate su cui dimorano i punti più alti della coscienza umana.
E, sorprendentemente, proprio mentre temiamo che la nostra solitudine possa solamente allontanarci dalla vicinanza delle altre persone, scopriamo che non solo essa ci rende più capaci di desiderare e costruire relazioni molto più autentiche e creative, ma risveglia in noi quel misterioso e nobile senso di Eterno a cui il nostro animo anela, indipendentemente da quanto ne siamo effettivamente consapevoli.
Spesso la Psicologia moderna tende ad insegnare tecniche per porre rimedio alla solitudine, per aiutarci a superarla e ad assumere atteggiamenti e comportamenti che la facciano sparire dalla nostra vita. Non di rado dunque si è inclini a ritenerla un fenomeno negativo, da risolvere rapidamente, privandoci del suo potere di agente di trasformazione interiore e di strumento di apertura di quel canale di comunicazione con la nostra “anima”, sempre più frequentemente ostruito nel caotico mondo moderno.
Quando il dolore che accompagna l’esperienza della solitudine è tale da richiedere l’intervento dello psicologo, egli deve prima di tutto saper offrire tutte le sue capacità per aiutare la persona ad alleviarlo. Questo è naturalmente il suo primo e principale dovere deontologico. Ma senza dubbio non mancherà anche il caso in cui un grande aiuto può arrivare nell’insegnare al paziente a riflettere sull’origine della sua esperienza di solitudine e quale potrebbe esserne il possibile fine.
Nella donna e nell’uomo particolarmente sensibili e intellettivamente dotati, essa può infatti costituire un prezioso mezzo di risveglio interiore e l’opportunità per spegnere il frastuono del mondo esteriore e dedicarsi all’esplorazione del proprio Io. Strettamente collegata alla condizione di solitudine troviamo infatti quella del silenzio, uno dei mezzi più autenticamente spirituali e “terapeutici” su cui possiamo contare.
Infine, i momenti di solitudine non devono né rattristare la nostra esperienza presente, né condizionare le nostre aspettative sul futuro. Nulla ci rende più consapevoli dell’importanza e della bellezza delle relazioni sincere quanto la loro temporanea assenza dalla nostra vita, e nulla ci rende più consapevoli anche della bellezza di questi inattesi momenti di silenzio che sorgono in noi mentre meditiamo sul futuro, aprendoci con fiducia agli sviluppi che la vita ci riserverà.