Della psicologa americana Amy Morin abbiamo già riportato alcuni scritti, che si caratterizzano sempre per praticità e concretezza, come le 27 domande per scoprire la propria forza mentale. In un suo articolo pubblicato in questi giorni viene trattato il tema della solitudine che fa ammalare. “La solitudine è letale come il fumo di 15 sigarette al giorno”, afferma l’autrice già nel titolo. A cui aggiunge che “le persone che vivono in solitudine hanno una probabilità di morire prematuramente più alta del 50% rispetto alle persone che hanno relazioni sociali appaganti”.
La condizione di solitudine a cui molte persone sono oggi assoggettate, viene dunque presentata come un fattore di rischio elevato non solo per il proprio equilibrio psicologico, ma addirittura per la salute. La quantificazione effettiva dei rischi, in ogni ambito, può variare anche notevolmente a seconda del metodo adottato dal ricercatore. Certo è che ciò che la scienza scopre in ambiti come questi spesso è solamente la conferma di ciò a cui il buon senso e l’osservazione attenta erano già pervenuti da tempo.
Lo stare soli e la solitudine che fa ammalare
Nel suo articolo, l’autrice chiarisce un punto fondamentale, su cui, anche in questo sito, non smetteremo mai di insistere: è necessario distinguere tra la solitudine come problema e la solitudine come necessità interiore. La solitudine può essere infatti vissuta come una condizione di disagio, semplicemente imposta dalle circostanze della vita. Rispetto ad esse possiamo trovarci nella condizione di avere poche possibilità di intervento, dovendo di conseguenza subirne la pesantezza e la problematicità. E questa è potenzialmente la condizione di solitudine che fa ammalare, almeno nei casi in cui l’individuo possiede scarse risorse per poterla affrontare e superare.
La solitudine può però essere la conseguenza di una precisa scelta di vita. Continuativamente o limitatamente a determinati periodi di tempo, una persona può avvertire la necessità di trascorrere del tempo lontana dal mondo e in compagnia solamente di se stessa. Lo stesso Carl Gustav Jung affermava che:
«La solitudine è per me una fonte di guarigione che rende la mia vita degna di essere vissuta. Il parlare è spesso un tormento per me e ho bisogno di molti giorni di silenzio per ricoverarmi dalla futilità delle parole.»
E questa decisamente non è una condizione di solitudine che fa ammalare. Spesso si tratta, al contrario, di una solitudine che fa guarire. E’ un momento di raccoglimento interiore indispensabile per alcuni. E’ una necessità indifferibile, almeno quanto lo è quella di riempire ossessivamente la propria vita con continui contatti personali da parte di chi è invece lontano dalla consapevolezza e dall’apprezzamento di questa particolarità.
La solitudine che mai avremmo cercato
Vi è però una condizione di solitudine che si inserisce esattamente nell’area grigia tra le due, più definite, appena indicate. Essa riguarda quella solitudine che le circostanze della vita ci impongono, ma che mai avremmo consapevolmente desiderato. Essa può avere gli stessi, potenziali, effetti letali di quella che abbiamo descritto all’inizio. Ma reca con se anche un dono prezioso, di cui possiamo non avere alcuna consapevolezza, anche per lungo tempo.
Se il nostro “destino” accompagna la solitudine fin sulla porta di ingresso della nostra vita, ciò non implica che questo ci debba necessariamente far soffrire. Le circostanze della nostra vita, di per sé, non sono il nostro destino. Esso si plasma infatti sulla base delle nostre scelte (il cosiddetto libero arbitrio) e delle responsabilità che ci assumiamo rispetto ad esse.
La scelta che possiamo compiere in questo caso non è tra stare soli o in compagnia. Dovendo necessariamente avere a che fare con una condizione di solitudine, la scelta posta di fronte al nostro cuore è tra una sofferenza inconsapevole e una sofferenza che nobilita l’intero nostro Essere, in grado di spezzare le catene che limitano la nostra Anima. L’inevitabilità della solitudine ci costringe a scegliere se approcciarla “con la mentalità di creatura, o con quella di creatore“.
Il divario tra le due vie è notevole. Se davvero siamo in grado di mantenerci sul versante più impegnativo, grande è il nostro guadagno in termini di forza dell’anima. Grande è anche la capacità di resilienza autentica che si sviluppa nel nostro cuore.
Mi rendo però perfettamente conto che la maggior parte delle persone, di fronte alla solitudine, non può vedere che una condanna. Chiunque di noi si sia trovato in una tale prolungata circostanza sa perfettamente quanto sia facile cedere allo sconforto e all’autocommiserazione. In quelle circostanze, parlare di “opportunità” o di “interiorizzazione che amplia la profondità della nostra coscienza“, può apparire come una presa in giro.
Ognuno di noi deve essere rispettato nei propri tempi e nella propria consapevolezza, ma nulla dovrebbe essere considerato definitivo all’interno della coscienza. Non abbiamo idea della meta a cui la solitudine ci potrà condurre nel prossimo futuro. Possiamo però “fidarci” del nostro sentire e della nostra interiorità. La vita, attraverso la forza del cambiamento psicologico, potrebbe avere in serbo per noi doni così preziosi da suggerirci intuitivamente di mantenere un atteggiamento fiducioso e responsabile, anche di fronte a momenti di difficoltà di questo tipo.