Mi sento spesso rivolgere la domanda se Religione e Psicologia possano in qualche modo coesistere, ma soprattutto se la credenza in qualche tipo di espressione religiosa possa costituire un aiuto in un processo di “guarigione”, psicologica e fisica.
Personalmente ho sempre qualche difficoltà nell’accettazione di un “credo”, inteso come corpus di insegnamenti da accettare in quanto tali sulla base della fede riposta nell’autorità che li ha emanati. Immagino possa essere sufficientemente chiaro, dalla lettura degli articoli in questo sito, che cerco sempre di mantenere un approccio molto razionale anche nell’ambito di questioni che per loro natura non si prestano facilmente alle stesse modalità di indagine applicabili alle scienze naturali.
Rimango infatti della convinzione che anche le esperienze religiose, o spirituali in senso lato, possano essere esperite, analizzate e comprese alla luce della propria intelligenza e del proprio buon senso, senza dover necessariamente pensare che solo con la fede si possono trattare le questioni religiose, e senza dover necessariamente considerare come contrapposti ed inconciliabili i differenti ambiti della scienza e della religione.
In uno “special issue” dedicato a Spiritualità, Religione e Psicologia riportato nel “The Psychologyst”, rivista della British Psychological Society, l’autrice Joanna Collicutt parte proprio dall’inevitabilità della considerazione del fenomeno religioso da parte della Psicologia. La Collicut afferma infatti che “La religione, se non altro, è un fenomeno profondamente umano, e quindi suscettibile di studio da parte degli psicologi”.
Perchè dunque la Psicologia dovrebbe interessarsi alla Religione? L’autrice sembra non avere dubbi, stando a quanto riporta nella conclusione del suo scritto: “…perchè è rilevante per le domande che stanno urgentemente emergendo nella nostra società; perchè senza di essa possiamo avere una visione solamente parziale della spiritualità umana; ma soprattutto perché, come l’Everest, semplicemente è lì”.
Freud e la religione
Per quanto sia bassa nel mondo della Psicologia la propensione dei professionisti a prendere in considerazione questioni non dimostrabili come quelle religiose, non tutti sono comunque concordi nel rifiutare lo studio del fenomeno religioso.
Un autore che ha affrontato la questione in maniera affascinante, aperta e ricca di quella profondità che l’argomento merita, è Rollo May, uno psicoanalista che fu tra i primi a diffondere la Psicologia Esistenziale negli Stati Uniti. In un testo pubblicato negli ultimi anni della sua vita (1), riporta innanzitutto il severo punto di vista di Freud sulla questione, che mette in guardia dai rischi a cui ci si espone assumendo un atteggiamento religioso di tipo passivo e deresponsabilizzante.
Il padre della psicoanalisi sosteneva infatti che la religione sarebbe un mezzo attraverso cui l’essere umano si rifugia in uno stato infantile di dipendenza e protezione. Le profonde insicurezze, difficoltà e delusioni a cui l’uomo è sempre stato esposto nel corso della propria vita avrebbero favorito la nascita di sistemi religiosi basati su dogmi che incoraggiano la fede nell’esistenza di un’intelligenza, uno scopo e una legge morale in grado di ripristinare quello stato di protezione di cui gode il bambino da parte del padre e della madre.
La religione troverebbe dunque fondamento sulle esigenze nevrotiche dell’individuo, spingendo Freud addirittura ad affermare che essa sarebbe “la nevrosi ossessiva universale dell’umanità”. E osservando il modo in cui alcuni individui ancora oggi si sottopongono fanaticamente all’osservazione dei dogmi religiosi, le riflessioni di Freud contengono senza dubbio almeno una parte di verità.
Lo stesso si potrebbe forse dire non solo delle religioni, ma anche di quei numerosi approcci “new age” che contribuiscono alla diffusione di filosofie che espongono pericolosamente l’individuo a quel fenomeno di “bypass spirituale” a cui abbiamo accennato in un precedente articolo.
Jung: la religione e l’inconscio collettivo
Come su numerosi altri aspetti della vita psichica, il punto di vista di Carl G.Jung differisce notevolmente da quello di Freud, che, almeno nella prima fase dello sviluppo della sua carriera, si può comunque considerare suo maestro. Lo psichiatra svizzero affronta il tema della religione a partire dalle sue scoperte sull’inconscio collettivo.
L’idea di un Essere divino, di potenza sconfinata, sarebbe a suo avviso presente ovunque, in quanto si tratta di un archetipo, un’immagine primordiale e potente appartenente alle sfere più profonde della psiche umana. Riconoscere consapevolmente l’idea di Dio costituirebbe dunque una saggia opportunità secondo Jung, dal momento che in caso contrario l’idea di Dio si manifesta sotto altre forme, che rischiano di essere “qualcosa di assai inadeguato e stupido”.
Nel corso del processo di guarigione, all’interno della psiche gli archetipi dell’inconscio collettivo in qualche modo si risvegliano e “prendono vita” in maniera indipendente, agendo come potenti elementi di trasformazione. L’io nevrotico e inadeguato verrebbe in questo modo aiutato e in buona parte sostituito, aprendo la strada verso una volontà rinnovata e rafforzata di cambiamento.
In questo modo Jung descrive il processo che le persone di mentalità religiosa definiscono come il “lasciarsi guidare dalla volontà di Dio”. La manifestazione di questa “volontà”, dunque, altro non sarebbe se non la conseguenza del risveglio di qualche potente archetipo di cui l’inconscio collettivo è costellato, e che in molte persone rimangono invece semplicemente silenti.
Anche Jung era convinto della pericolosità dell’atteggiamento infantile e deresponsabilizzante di un determinato modo di vivere la religiosità, ma a differenza di Freud estese le sue ricerche ad aree della psiche che possono senza dubbio essere definite “spirituali”, pur cercando di mantenere un atteggiamento il più possibile neutrale e distaccato su una questione di così ampia portata. Vorrei riportare, quale conclusione sul suo pensiero, uno spunto di riflessione particolarmente illuminante tratto da uno dei suoi testi divulgativi più conosciuti (2):
“Non do alcun giudizio di valore sull’esperienza religiosa, sostengo soltanto che i conflitti interiori sono sempre fonte di profonde e pericolose crisi psicologiche, talmente pericolose che possono distruggere l’integrità della persona. Ebbene, a livello psicologico tali conflitti interiori si manifestano con le medesime immagini e con il medesimo simbolismo di cui troviamo testimonianza in tutte le religioni del mondo e che furono utilizzate anche dagli alchimisti.
E’ questo che mi ha spinto ad occuparmi di religione, di Yavèh, di Satana, di Cristo, della Vergine. Mi rendo conto che in queste immagini un credente vede cose molto diverse da quelle che io, come psicologo, sono legittimato a vedere. La fede è una grande forza spirituale, che garantisce al credente la sua integrità psichica. Ma io sono un medico, a me interessa guarire il prossimo. La fede, da sola, oggi non ha più, per certe persone, un potere terapeutico. Il mondo moderno è desacralizzato, e questa è una delle ragioni per cui è in crisi. L’uomo moderno deve perciò trovare altrove, nel suo profondo, le sorgenti della propria vita spirituale, e per trovarle deve individualmente lottare contro il male, confrontarsi con l’Ombra, integrare il demonio. Non c’è altra scelta. Perciò Yahwèh, Giobbe, Satana rappresentano situazioni psicologicamente esemplari: sono il paradigma dell’eterno dramma dell’uomo“.
Nevrosi e religione
Ritornando a Rollo May, nel suo testo già citato viene affermato che la questione religiosa alla fine si risolve in una questione di “ricerca di senso“. Egli era uno psicoterapeuta esistenzialista, per cui la questione della ricerca di significato non può che assumere un ruolo centrale nelle sue riflessioni. A suo avviso, più si penetra nel campo della psicoterapia, più ci si avvicina inevitabilmente al regno della religione e della teologia. Ed è interessante notare come egli affermi che gli interrogativi fondamentali e di vasta portata con cui termina solitamente una psicoterapia punterebbero proprio verso il campo della teologia.
Rollo May afferma che uno degli aspetti di fondamentale importanza nella cura della nevrosi è progressivo il farsi strada, nella persona che soffre, della non-egocentrica convinzione dell’esistenza di un potere curativo che va al di là del ristretto campo del proprio sé personale. La sofferenza è in grado di spingere la persona fino alla disponibilità a fare qualsiasi cosa pur di uscirne.
Disponibilità che la mette anche nella condizione di poter affermare “sia fatta la tua volontà”, e in quel momento “sente di non essere importante perchè è una creatura dotata di volontà individuale, ma soltanto perchè può essere, in una certa misura, il canale attraverso cui si esprime il significato dell’universo. Fortunatamente, la struttura dell’universo invia costantemente il suo richiamo; acquistando la capacità di rispondere, l’individuo è in grado di agire senza una motivazione prevalentemente egocentrica”.
Alla fine, ricorda ancora Rollo May, è una questione di volontà di scommettere che la propria vita ha un significato, come nella celebre scommessa di Pascal. E ciò avrebbe un senso tanto psicologico quanto religioso. L’essere umano, a suo avviso, ha bisogno di rischiare, ha bisogno di postulare la propria esistenza. E solo questo costituirebbe quel fattore in grado di fargli acquisire quel potere che prima non aveva, quel potere di spezzare le catene della propria sofferenza e di innescare il cambiamento.
La religione può essere una forma di cura in psicologia?
Come molti illustri psicologi hanno sempre affermato, l’atteggiamento religioso che vede l’uomo affidarsi totalmente alla convinzione dell’esistenza di un’entità sovrannaturale onnipotente è psicologicamente pericoloso. Esso priva la persona della possibilità di assumersi la responsabilità delle condizioni della propria vita.
Questo atteggiamento risulta ancora più pericoloso quando mette la persona nella condizione di sentirsi libera di giudicare chi merita e chi non merita “la grazia di Dio” sulla base di quanta fede appare presente nelle altrui vite. O quando fa sorgere un sentimento di infantile superiorità nella persona che scopre, nella totale sottomissione ad una fede, una straordinaria modalità compensatoria per le frustrazioni a cui la vita l’ha assoggettata.
Sono tutti esempi di modalità che impediscono all’uomo di crescere, imparando, come afferma Rollo May, “a camminare sul filo del rasoio dell’insicurezza e ad affermare la verità e la bontà, anche se la verità è stata condotta al patibolo e la verità non si realizza mai in maniera perfetta”. E’ molto più facile, infatti, convincersi della propria superiorità in un mondo in cui un’entità superiore prima o poi punirà chi ha avuto troppo e ristabilirà quella giustizia in cui non si ha il coraggio di credere e per la quale non si è disposti a lottare.
Limitare però la considerazione della spiritualità e della religione in ambito psicologico solamente a questo sarebbe un errore grave e la perdita di una straordinaria possibilità di trasformazione interiore. La fede, indipendentemente dalla sua indimostrabilità scientifica, è un potente fattore di guarigione, e questo è un dato oggettivo su cui lo psicologo si interroga da tempo.
Ciò che più trovo interessante nel mio lavoro di psicologo è comunque notare che laddove la persona abbia il desiderio di dare un profondo senso spirituale (nel senso più ampio del termine) alla propria esistenza, i risultati in termini di trasformazione interiore sono estremamente interessanti.
Quando la persona sente un profondo desiderio di attribuire un nuovo livello di senso alla realtà del proprio esistere, le crisi acquistano un senso diverso; la sofferenza viene reinterpretata con modalità estremamente creative e psicologicamente trasformative.
Quando si desidera affrontare i propri tormenti interiori mantenendo una posizione di apertura verso l’emergere di una visione della vita carica di senso e di bellezza, si può assistere all’emergere di inaspettate risorse personali e alla capacità di vedere la vita con un precedentemente sconosciuto senso di meraviglia…
NOTE BIBLIOGRAFICHE:
1 – May R., (1991), L’arte del counseling, Casa Editrice Astrolabio – Ubaldini Editore, Roma
2 – William McGuire, R.F.C. Hull, Jung Parla – Interviste e Incontri, Gli Adelphi (p.296-297)
1 commento su “Spiritualità, Religione e Psicologia”
Trovo molto interessanti gli spunti dati, e mi piacerebbe approfondirli in un possibile confronto, partendo da esempi clinici che mi stanno facendo riflettere. Sono anche io psicoterapeuta, ad indirizzo psicodinamica, con esperienza clinica più che trentennale..