Una triste verità o una felice illusione?

Nella nostra vita quotidiana siamo in grado di accogliere una triste verità o tendiamo a preferire una felice illusione e i suoi vantaggi?
Una triste verità o una felice illusione?
Una triste verità o una felice illusione?
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Chiunque abbia avuto modo nella propria vita di riflettere coraggiosamente sull’autenticità del proprio vissuto personale non può non essersi imbattuto nel dubbio se, ai fini del mantenimento del proprio benessere personale, sia preferibile una triste verità o una felice illusione.

Senza dubbio, uno degli aspetti in grado di catturare con maggiore forza gli interessi e le attività dell’uomo è proprio la ricerca della felicità. Personalmente, preferisco sempre fare riferimento ad uno stato di autentica gioia interiore, piuttosto che a quella condizione di eccitazione emozionale generalmente definito felicità.

La prima deriva infatti dallo sviluppo interiore di uno stato di consapevolezza ed autenticità, ed è pertanto indipendente dalla qualità del vissuto oggettivo del momento. La seconda è invece la diretta conseguenza del grado di piacevolezza che le circostanze di vita offrono in un dato momento. La prima è in un certo senso uno stato dell’essere caratterizzato da una certa stabilità, la seconda ha bisogno della costante alimentazione del vissuto sensoriale che la determina.

La passione è una grande fabbrica d’illusioni;
solo chi è riuscito a liberarsene può raggiungere la libertà.

Simone Weil

Realtà che conosciamo e realtà reale

Diciamoci la verità: a nessuno piacerebbe doversi rendere conto che la “realtà” che sta vivendo in prima persona ha più a che fare con il reame dell’illusione che con quello della verità. Le nostre vite ci appaiono ovviamente del tutto autentiche. Ciò che sperimentiamo ci appare felicemente o drammaticamente reale, data l’assoluta fiducia che riponiamo nella nostra percezione sensoriale.

Ma quante volte ci siamo resi conto (a posteriori) che la “realtà vera” che stavamo vivendo in un determinato momento della nostra vita si poteva considerare tale solamente per il fatto che ci mancavano delle informazioni? Qualche esempio?

  • Una persona coinvolta in una relazione sentimentale appagante può sentirsi realizzata, felice. Ma che cosa accadrebbe alle sue emozioni se scoprisse che negli ultimi 2 anni il compagno o la compagna hanno vissuto parallelamente una relazione con un’altra persona? Il medesimo tipo di vissuto assumerebbe un significato del tutto diverso. I ricordi verrebbero reinterpretati e si vivrebbe quella sgradevolissima sensazione di sentirsi “stupidi” per non aver colti determinati segnali della “verità” della situazione.
  • Una persona con modeste doti personali e intellettuali può sentirsi appagata nel rendersi conto dell’apprezzamento che i colleghi di lavoro dimostrano nei suoi confronti. Ma cosa accadrebbe se dovesse rendersi conto che ciò accade solamente a seguito di una forma di compassione che le viene rivolta? Quale sarebbe l’effetto sulle sue emozioni e sulla sua autostima se dovesse scoprire che ciò che accade è in realtà frutto più della risposta empatica di compassione che suscita negli altri che del proprio valore personale?

In situazioni come queste il “risveglio” è drammatico e talvolta anche brusco. Ci si rende conto di aver vissuto in un mondo irreale, e di aver provato emozioni basate più su una nostra interpretazione della realtà che su un dato di fatto reale.

Il seducente invito all’illusione

Ma perché allora talvolta una felice illusione rappresenta una condizione più allettante rispetto ad una triste verità? La risposta appare abbastanza semplice: la verità a volte fa male, e talvolta può davvero farne molto. Il mantenimento di qualche forma di illusione offre invece di norma qualche forma di vantaggio.

Alcuni di questi vantaggi sono solamente secondari e la loro presenza è una costante nella vita di moltissime persone, con conseguenze tutto sommato trascurabili se non addirittura positive. Altri vanno purtroppo invece a collocarsi proprio alle fondamenta delle nostre credenze, costituendo quindi di fatto anche le fondamenta del nostro agire e della percezione che abbiamo di noi stessi. Eccone qualche esempio:

  • Il mantenimento dell’autostima. Come abbiamo già riportato altrove, una interessante teoria definita del “realismo depressivo” afferma che le persone moderatamente depresse hanno un grado di giudizio sulla realtà molto più accurato rispetto ai non depressi. Qualche forma di illusione su sé stessi o sull’ambiente che ci circonda pare essere quindi addirittura indispensabile ai fini del mantenimento di un ottimale grado di autostima
  • Evitare l’assunzione di qualche forma di responsabilità. La mancanza di consapevolezza del reale può porci nella condizione di evitare un nostro coinvolgimento diretto nell’assunzione di responsabilità verso persone o situazioni. L’elemento che fa scattare in noi l’assunzione di responsabilità è infatti solamente la chiara consapevolezza della situazione e il ruolo concreto che noi svolgiamo in essa. In mancanza di questo, possiamo perpetuare la nostra illusoria e felice estraneità.
  • Il mantenimento della felicità. Quando ci troviamo a sperimentare l’angoscia derivante dalla presenza di elementi di dolore nella nostra vita, diviene comprensibile il perché della tendenza che qualcuno dimostra ad aggrapparsi a persone o situazioni che sembrano offrire sollievo. Ed è spesso interessante notare come la “realtà” descritta da queste persone appaia artefatta agli occhi di osservatori esterni. Ma ciò di norma non basta a decidere di liberarsi di una preziosa illusione.

Illusione, verità e libertà

Spesso provocatoriamente si afferma che “l’ignoranza è un dono“, e che la conoscenza responsabilizza. Ma si tratta probabilmente di una verità ben più profonda di quanto si possa immaginare. La permanenza in un inconsapevole stato di illusione è favorita dalla mancanza di informazioni maggiormente accurate ed autentiche sulla realtà. Come abbiamo visto, ciò ha una serie di vantaggi non solo secondari.

Vi è però un notevole prezzo da pagare. Non sono poche le persone che non sono consapevoli del prezzo che stanno pagando, e men che meno del fatto stesso che ne stiano pagando uno. Il prezzo più grande è la rinuncia alla libertà. Non alla libertà di poter agire, fare, emozionarsi o pensare. Il prezzo più elevato è quello che paghiamo per la perdita della possibilità di dare un valore autentico alla nostra vita.

Non possiamo definirci autenticamente liberi se non conosciamo ciò che ci condiziona, ciò che ci illude o ciò che ci mantiene lontani dalla verità. Ma quanti possono però dichiararsi pronti a rinunciare alle proprie illusioni al fine di ricongiungersi con la propria autenticità se il realismo che ne consegue è un boccone amaro da digerire? Quanti possono affermare con saggezza e consapevolezza di riuscire a preferire una triste verità ad una felice illusione?

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